NEL 1500 GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI ERANO BELLI E FATTO!

di Giuseppe Abbruzzo

 

A noi, e crediamo a tanti, viene da chiedersi: - Gli scandali che vedono coinvolti amministratori locali ecc. è qualcosa dei giorni nostri o ha radici lontane? -.

Nel ricercare, per avere risposta, abbiamo incontrato una “perla” che risale al 1500.

Oltre 5 secoli fa già esisteva il vizietto. Siamo nel periodo luogotenenziale, nel Regno di Napoli, e il Luogotenente generale don Riccardo de Cardona cercò di porvi freno.

Ecco cosa succedeva: i sindaci delle varie Università (ndr odierni Comuni) mandavano nunzi a Napoli “delle spese - considerava il luogotenente - i poveri uomini (ndr i cittadini) vengono ad esser molto gravi, sì per esser molte cose poco necessarie, ovvero, che si potrebbero scrivere senza mandar Sindaci, e se bisognasse mandare uomini, basterebbe uno”; invece “ne mandano due, e tre, sì ancora”.

Perché si faceva tutto questo? “e comeché per espedire le sole cose dell’Università ci avessero da stare pochi dì, per aver da fare le loro faccende per principali, e particolari, ce ne stanno molti, e stanno sopra le spese de’ poveri uomini, i quali alle volte pagano la roba loro, e non sanno perché”.

Ecco! I furbi di quei tempi: amministratori moderni belli e fatti, fingevano di espletare incarichi dell’Università, mentre sbrigavano le loro faccende e quelle degli adepti, addebitando le spese agli “uomini”, ossia ai cittadini.

Non è cambiato proprio nulla.

Vi risparmio la Prammatica (decreto, legge) emessa a riguardo, vi dico solo che fu emanata da Castel nuovo, in Napoli, il 19 novembre 1509.

Si vuole dell’altro?

Dato che si era rilevato che “tutte le Università delle Città, Terre, Castelli, Casali, e luoghi, si ritrovano grandemente aggravate di debiti, e tutto per la mala amministrazione degli stessi Cittadini, che hanno tenuto, e tengono il governo in mano, e che hanno amministrate, ed amministrano le loro entrate, e danari; e che intenti al proprio lucro, e comodo, più degli altri le frodono (sic), volendo, quanto possiamo ovviare a dette frodi, e provvedere al beneficio, ed utile universale di tutti” si emana una prammatica.

Data la lunghezza di essa ne evitiamo di riportare perfino stralci. Dobbiamo, però, evidenziare che, all’epoca, per meglio arricchirsi a danno dei cittadini, si passavano l’amministrazione locale da padre in figlio ecc. Si ordinava, perciò: “Item, vogliamo, ordiniamo, e comandiamo, che non si possano in un medesimo tempo eleggere al reggimento, e governo d'alcuna Università padre, figliuolo, o fratelli carnali, ed eleggendosi, la elezione, sia ipso jure, ipsoque facto nulla, et invalida”.

La prammatica in questione reca la data 15 dicembre 1559.

Ogni commento ai miei “25 lettori”.


II - ANCORA SULLA SALINA DI LUNGRO

di Giuseppe Abbruzzo

 

I lettori si saranno chiesti: - Cosa avrà rilevato l’inviato del marchese de Turro? -.

Come promesso ritorniamo con presentare cosa si aprì agli occhi di Pulli:

“Degl’infelici forzati dal bisogno, nudi maneggiare un grosso maglio in masso di ferro, e battere le piccole leve, o cunei dello stesso metallo, che ad arte conficcano nelle fenditure, che essi praticano nella interne superficie del monte, o dalla miniera, accompagnare ogni colpo con un grido, come servisse loro di ajuto, e tanto il colpo del martello sopra leve di ferro, che la voce, che credono indispensabile di accompagnare, che in aria libera il suono, e ‘l rimbombo si sentirebbe a 100 passi; appena si avverte stando loro vicini, e si crede come venisse da lontano quella fioca voce, o come si stasse con ventriloqui”.

Dalla descrizione sembra di essere in un girone dell’inferno dantesco.

Si evince che il relatore era rimasto particolarmente colpito dalle condizione inumane di quei “forzati” dalla Sorte a essere condannati a quel lavoro.

Pulli continua quella descrizione:

“Di più si osserva con sorpresa, che le persone incaricate a portar in spalla da giù in su i massi salini, soffrono grandi pesi nel fondo della miniera, mentre a misura, che ascendono, e vanno incontro all’aria sono obbligati di scaricarsi di una parte, e ritenerne l’ordinario peso, che ciascuno secondo la sua età, o forza può portare, e tutto ciò dalla mancanza dell’aria libera, e propria alla respirazione”.

Si sarebbe potuta alleviare tanta pena e tanta sofferenza?

“Se in quegli angusti e tortuosi giri - ci precisa il relatore - si fosse avuta l’accortezza, e mi si permetta, anche ’umanità di far giocare l’aria del giorno, o con cunicoli, o altre aperture fatte a bello studio, e di assicurare la salina dalle mofete, non sarebbe stata la vita degli operaj sì malversata, e di sì breve, e penosa durata, anche perché gl’inaccorti ignorano, che urlando, sottraggono parte dalle loro forze”.

Il riferimento dell’urlo è a quel grido riportato che aveva tanto colpito il relatore.

Il grido, sostiene, sembrava aiutare lo sforzo, ma, come rilevato toglieva forza.

Altro particolare, appena accennato è sulla durata della vita di quei “miseri dannati”.

La relazione, perciò, non è solo tecnica, ma tocca “corde” diverse.

 “La fortificazione interna della miniera - continua Pulli - è uno degli oggetti, che più di ogni altro ramo concernente le miniere interessar dee il perito che visita. Di fatti percorrendo tutti i luoghi, li ritrovammo fortificati con la barda, fossile composto di sale e di argilla indurita, o di sale, e carbonato di calce molle, e questo è il residuo, dopocché radono da simili massi il puro sale, e considerato come inutile, o se ne servono per le mura interne, ma a secco; ma siccome questa barda è in abbondanza, usano male questa sostanza, in luogo del legname, che sarebbe più durevole, e sicuro, o almeno di fabbrica regolare.

In alcuni luoghi potrebb’essere sufficiente la barda, allorché i pezzi avessero un egual punto di appoggio, in tutt’i sensi fossero ben connessi, e quando il peso fosse da per tutto eguale; ma noi ritrovammo, che parecchie di queste mura a secco erano uscite di sesto, ed incurvate, e la montagna sovrastante era minaccievole, ed abbassata. Questo vuol dire, che le mura citate, a secco fatte di barda erano mal costruite; poichè formando esse due lati di un quadrato, o un segmento di cerchio secondo le posizioni della roccia, e l’interno di esse esscndo riempito di argilla fangosa, e di tufo calcare limaccioso, e friabile, disseccandosi questo materiale, deve lasciare un vuoto nel quadrato, ed allora i lati devono sfasciarsi ad ogni urto, o pressione, e necessariamente uscire di posizione”.

O rilievi sono particolareggiati, giustificati, interessanti.

Riguardo al taglio del sale il nostro fa, anche, le sue osservazioni “ed un dialogo col principale tagliatore”:

“Il sale si tagliava su gli strati in pezzi parallelogrammici, cosicché osservammo con piacere che in questa parte si lavorava più regolarmente. I tagliatori attaccavano lo strato salino lungo in tutta la sua estensione a gradini ascendenti, e discendenti, cioè a fasce, o banchi in quadrato lungo, lasciando di spazio in spazio de’ banchi orizzontali, che gli operaj chiamano sovracieli, ove si situano i tagliatori per proseguire il loro lavoro; cosicché allorché il masso è tutto cavato fuori, tolgono i banchi orizzontali, o sopracieli, quindi li fortificano con la barda nel modo sopradescritto”.

Precisa, il relatore che sarebbe funesto se fosse usata la polvere da sparo, come avveniva in Polonia, Siberia e altri luoghi, perché “essendo le nostre fortificazioni deboli, e malferme, le esplosioni apporterebbero sicuri disastri”.

Proseguono la descrizione e le precisazioni: “I passaggi, o cunicoli interni erano senza regola, o disegno, e praticati all’azzardo: si esplottava (ndr esportava) il sale come la fortuna, e ‘l caso portavano senza aver riguardo alla roccia sopra, o sottostante, molto meno alla facilitazione de’ cammini tanto conducevoli alla estrazione del sale”.

Riguardo al trasporto scrive: “Il sale che si esplottava, era portato al giorno su la schiena de’ facchini, e de’ ragazzi: dai primi in pezzi solidi, attaccati con corde, dai secondi si portava lo Sterno in sacchi; ma siccome una è la strada, come abbiam detto in principio, che conduce dall’interno al giorno, e perché ripida, e difficile a praticarsi, anche perché in molti luoghi è stretta, devono serbare una sola linea, onde non si urtino fra essi”.

Ed ecco un’altra precisazione: “Lo stato di economia, perché i tempi, e le circostanze lo esigevano, in cui noi trovammo la salina d’Altomonte era ignobile, ed in qualche modo vizioso, perché i prodotti non erano in una perfetta sicurezza; cosicché potevansi commettere e frodi e contrabbandi, se quegl’impiegati non fossero stati onesti ed attaccati al loro dovere. L’idea del controllo era ignota affatto, e tutta dipendeva dalla buona, e viziosa volontà di uno, o al più due impiegati, detti uffiziali.

Se noi dovressimo dar fuori un regolamento su tutt’i rami della salina ne assicureremmo particolarmente questo interessante ramo”.

Direttore della salina all’epoca della visita, che ricordiamo ebbe luogo il 1811 in piena dominazione murattiana, era il “Cavaliere Matera, persona molto intelligente, ed istruita”, come annota il relatore.

La cosa che interesserà, fra l’altro, della salina è la consistenza di impiegati e manodopera e il loro stipendio in ducati.

Questi erano i cosiddetti “ufiziali”: “Un Ricevitore che aveva per assegno in ogni mese ducati 60; Un Geometra 25; Un Ricevitore del sale 18; Un Pesatore 12; Un Ajutante al pesatore 10; Un Economo della miniera 12; Un Custode della porta 9; Un Ordinatore de’ lavori 9; Un Ajutante all’ordinatore 9; Un Guarda barda pesatore 6,60; Un Accenditore delle lanterne 6,60; Un Facchino alla bilancia entro la salina 6; Un Ajutante al facchino 6; Un soprastante de’ ragazzi 6; Un Cappellano 3”.

“Artìsti ed operaj” che percepivano il salario in grana. Questa moneta era la 1000a parte del ducato ed era pari a £ 4,25: “Vi erano tre intravatori, o fortificatori a grana 47 al giorno; Ventisei tagliatori ordinarj del sale a grana 9. 10, 11, 12 a cantajo; poiché si otteneva più profitto regolandosi il prezzo per ogni cantajo, e secondo i siti più o meno difficili; si aumentano secondo il bisogno. (ndr Il relatore annota: “Quando non hanno cosa da fortificare, tagliano allora il sale come gli altri tagliatori”); Tre muratori a grana 36 ciascuno al giorno, i quali potevano anch’essi aumentarsi secondo le circostanze; Quattro palieri a grana 26 al giorno, anch’essi accrescibili secondo la quantità di sale, che insaccano, di quello chiamato Sterno. Dodici scheggiatori a grana 26 al giorno, i quali sono incaricati di dividere il sale dalla barda, o ciocché vuol dire lo stesso, dividono la parte salina dalla matrice; Quarantasette facchini a grana 21 al giorno i quali sono incaricati di togliere via il sale in pezzi dagli scavi fatti, lo situano da parte nella stessa salina, da dove lo portano al giorno nel loro dorso, e questi anche si accrescono, o diminuiscono secondo il bisogno; Sedici ragazzi a grana 16 al giorno, ciascuno; più Dieci altri ragazzi a grana 11, i quali raccolgono il sale detto Sterno, o quasi spolverizzato, e ‘l portano nel luogo di deposito nella salina, ove s’insacca, e si porta su le spalle sino alla buca di entrata, o esteriore, e questi sono anche incaricati di pulire lo sterno delle materie impure; Più Otto ragazzi a grana 9 al giorno, i quali sono incaricati di raccogliere le piccole schegge di sale, che ripongono da parte, e mancando il numero de’ facchini suppliscono al bisogno”.

La relazione continua, ma riteniamo di aver riportato abbastanza a chi legge per pura curiosità.

abbruzzog@tiscali.it

I - ANCORA SULLA SALINA DI LUNGRO

di Giuseppe Abbruzzo

 

Il 14 ottobre 1811 il marchese de Turris, con lo scopo di correggere errori vari, incaricò Pietro Pulli, per un’ispezione e la conseguente relazione.

Il suddetto precisa che la lunga e particolareggiata relazione fu accolta con appagamento “e noi perciò altamente ricompensati”.

La relazione si intitola: “Miniere di salmarino di Altomonte, o di Lungro”. Come è noto, però, le miniere erano di salgemma.

Questa la descrizione che apre la relazione:

“Il promontorio, che domina la Valle di Cosenza, ed estende la sua veduta nel golfo di Taranto, ed in quella parte che bagna il territorio di Cassano, si chiama oggi Altomonte abitato da circa 2000 individui, confina col territorio di Lungro alla piccola distanza di due miglia al Sud, e dista da Napoli 100 miglia; da Cosenza 34, e 12 da Cassano territorio dell’antica Sibari.

Il suo territorio è bagnato da due fiumicelli Efare, e Grandi, e da due piccioli torrenti Fiumicello, e Tiro, che hanno origine dalle montagne di S. Donato, e Malvito.

In questo monte vi sono le famose miniere di muriato di soda, o salgemma tanto rinomate, e celebrate tanto dagli antichi Scrittori di cose naturali, e particolarmente da Plinio, e che possono gareggiare per abbondanza, e qualità con le migliori di Polonia, ed altri paesi che godono di questo prezioso deposito salino”.

La necessità d’un intervento era generata come spiega il nostro autore, perché i lavori non erano stati diretti “da mano perita e da uomini istruiti nell’arte delle miniere”; non si sarebbero iniziati malamente gli scavi “ed i successori de’ primi lavori, non avrebbero fatto peggio seguendo le prime opere praticate alla barbara”.

A quei tempi, precisa il relatore non “era conosciuta la ragione e l’utilità de’ pozzi perpendicolari, che sono come le basi fondamentali delle miniere, e servono di bussola al prosieguo ulteriore degli scavamenti, non quello de’ campi divisi secondo i quattro punti cardinali del mondo, né tampoco le regole dell’intravatura o fortificazione interna delle miniere, molto meno la facilitazione, o vantaggio de’ passaggi de’ cunicoli che tanto facilitano ed i trasporti, e la circolazione libera dell’aria, non la giusta disposizione delle opere, e degli operai, e tutto era in un umiliante stato”.

 Si lavorava, perciò, senza un giusto criterio. La cosa poteva cagionare prima o poi “funesti conseguenze con la sua rovina”. Questo perché i passaggi erano intralciati e l’intravatura debole ecc. Per tutto quanto rilevato cessava “necessariamente la ventilazione, l’abbandono è irreparabile, e non sono lontani ad avversi e funesti presagi”.

Ed ecco come descrive lo stato della salina:

“Da una buca o apertura praticata a mezzogiorno, unica, che esisteva nel piccolo spazio di pochi palmi, si entrava nella salina di Lungro, o Altomonte, dove si ritrovarono da noi confusi, e messi insieme, pesatori, ricevitori, commessi, lavoratori, facchini, e vetturali”.

È bene ricordare che il palmo, nel sistema di misura del 1840 era pari a cm 26, 33.

Continua la relazione:

“Si osservava dalla citata apertura un piccolo passaggio di circa 60 palmi debolmente intravato, il quale conduceva nel fondo della salina, ove si scendeva per una gradinata molto erta intagliata nel masso dello stesso sale sassoso, e rotta in molte parti, fino allo scavo appellata da’ lavoratori Mauro, il quale comunica col forame, che esce al giorno, a destra del quale si scende in uno scavo, detto Brustinacchio, divenuto magazzino di sale. Ritrovammo a poca distanza di questo primo deposito due altri magazzini con moltissimo sale detto Sterno, ossia sale granelloso, abbandonato da gli antichi, e l’aria, che pel camino s’introduceva nello scavo di Mauro giungeva debolmente nei pocanzi citati depositi, e molto più debole ancora, giungeva in uno scavamento detto dello spumatojo, cioè 400 palmi distante dalla principale unica buca. Dallo spumatojo si ripiega a sinistra verso settentrione, e vi si rinviene un cavo pensile, che nel linguaggio di quei naturali si chiama Ascio, egualmente distante dalla buca, che lo spumatojo, mentre a pochi palmi più in giù si osserva un altro scavamento denominato Ammendoletta.

In queste cavità l’aria interrotta dallo spumatojo, dal Mauro, e da un altro scavo denominato Perucca, che è coperto di barda, cioè sale, che contiene molt’argilla cinerea, con ossido di ferro, appena vi giunge.

Scendendo ancora s’incontra un altro scavo chiamato Pagliaja, che è profondo 500 palmi dall’apertura di sopra; l’aria diviene soffocante, affatto viziata, e non è più quella, che sostiene la combustione de’ polmoni e sempre peggiora nello scavo detto la Fossa, ch’è il punto più profondo della salina.

Più lumi, de quali avevamo bisogno per osservare, appena davan fuori una languida luce, ed annunziavano ogni istante, non essere quello l’alimento loro e nostro.

Non essendo noi avvezzi a quell’ammasso di miasmi mai rinnovati da correnti salutari di libera aria, le funzioni della vita seguivan la sorte de’ lumi ed accompagnati da mossa di stomaco, e da un nojoso sibilo nelle orecchie cercammo di guadagnare in fretta il disopra”.

Il relatore, come si vede, dà notizie non solo della salina, ma delle condizioni disumane di chi era costretto a lavorarvi. Fa, perciò, la seguente puntualizzazione:

“Una colonna di aria perpendicolare in un sotterraneo qualunque al di là di 100 palmi di altezza principia a stagnarsi, ed i gas superflui alla composizione dell’aria dell’atmosfera, o estranei alla medesima non essendo respinti da una colonna di aria esterna si rendono pericolosi, ed improprj agli animali e per conseguenza ad ogni combustione.

In quei pochi momenti, che l’inabitudine ci permise di rimanere in quell’abisso quali fenomeni si presentarono a nostri occhi!”.

La descrizione, come si vede è precisa e dettagliata, cosa che la rende interessante.

Come interessante è la presentazione inumana, nella quale erano costretti a lavorare e vivere i lavoratori.

L’autore continua e noi rinviamo a un secondo intervento.

abbruzzog@tiscali.it



LA RIVOLTA ANTIFRANCESE IN CALABRIA E LA CITTA' AMANTEA,

 

Negli anni 1806- 1807, nel corso della rivolta antifrancese in Calabria, un ruolo di primo piano lo rivestì la città di Amantea, città simbolo nella lotta contro lo straniero. Amantea, in quei mesi assediata più volte dai soldati del Bonaparte, seppe resistere a lungo e con nobile orgoglio e divenne per i Francesi un ostacolo insormontabile ed un segno precipuo del carattere e del coraggio dei legittimisti calabresi in lotta contro l'occupazione straniera. I Francesi avevano invaso il Regno di Napoli al fine di garantire all'imperatore Napoleone Bonaparte la possibilità di realizzare il proprio disegno di influenza sul Mediterraneo, che era il fine principale della sua politica. L'imperatore, però, aveva fatto i conti senza l'oste. Riteneva, infatti, che i 50.000 uomini del corpo di spedizione francese avrebbero potuto avere la meglio in poco tempo, soprattutto dopo la sconfitta dell'esercito borbonico a Campotenese nel marzo 1806. Subito dopo Campotenese, i Francesi avanzarono e raggiunsero ben presto Cosenza ed altri centri del territorio calabrese. "I Francesi – scriveva P. Colletta – soggettarono tutte quelle terre, fuorché Maratea, Amantea e Scilla, forti di mura e di armi"(1). Di lì a poco, tuttavia, in Calabria si sarebbe scatenata la rivolta antifrancese. I moti antifrancesi scoppiarono a Soveria Mannelli (Cz), dove un soldato francese, che aveva insidiato una donna sposata, era stato ucciso dal di lei marito. Subito insorse anche il paese e la rivolta dilagò, trovando un indomabile condottierro nel longobardese Giovan Battista De Micheli, che fu anche Preside della Provincia di Cosenza, e forti centri di resistenza in Amantea e nei limitrofi centri del Tirreno. Nel popolo, ancor prima di Campotenese, subito dopo l'invasione del Regno di Napoli, erano sorti dei gruppi armati (masse reali) che re Ferdinando aveva riconosciuto con il decreto del 27 febbraio 1806. La rivolta così trovò già pronti uomini ed armi e la lotta fu lunga e dura. Nell'aprile del 1806, così scriveva Napoleone al proprio fratello Giuseppe: "Tenete nelle Calabrie, egli diceva, parecchie colonne mobili di Corsi. Sono costoro eccellenti soldati per la guerra di montagna; e la faranno in pro della nostra famiglia con pieno entusiasmo. Non dividete troppo le vostre forze. Voi avete 50000 uomini; e sarebbero soperchi, se sapeste giovarvene"(2). Ma la partita non fu facile e le masse seppero bloccare a lungo i Francesi. Nel corso della guerra, perché guerra fu, guerra vera ed aspra, la città d'Amantea, luogo strategico e forte centro di resistenza, come già detto, fu più volte assediata. Alla fine, però, dovette cedere! Il 6 febbraio, in una casetta colonica, Rodolfo Mirabelli, comandante della piazza di Amantea, dovette firmare la resa. "Era la fine: la città di Amantea cadeva, ma solo dopo aver tenuto testa, a lungo, ai francesi, con una lotta contro lo straniero, in cui si possono intravedere i prodromi del nostro Risorgimento"(3). Poco dopo anche il Preside De Micheli, l'anima della rivolta, venne fatto prigioniero ed ucciso dai Francesi nel castello di Fiumefreddo.

EUGENIO MARIA GALLO

 

Note

  1. Cfr. P. Colletta, Storia del Reame di Napoli (Dal 1799 sino al 1913), volume II – Editrice Bietti Milano 1930, p. 211.
  2. Cfr. L.M. Greco, Annali di Citeriore Calabria dal 1806 al 1811, Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, Edizioni del Tornese s.r.l., Roma novembre 1979, p. 30.
  3. Cfr. E. M. Gallo, Fuochi ad Amantea, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza febbraio 2014, p. 58.

BIBLIOGRAFIA

  1. L. M. Greco, Annali di Citeriore Calabria dal 1806 al 1811, Cassa di Risparmio di Calabria e di Lucania, Edizioni del Tornese s.r.l., Roma novembre 1979.
  2. E. M. Gallo, Fuochi ad Amantea, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza febbraio 2014.
  3. E. M. Gallo, I giorni di Maratea e di Amantea, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza febbraio 2016.
  4. E. M. Gallo, Giovan Battista De Micheli, L'anima della rivolta. Tipolitografia Graphisud di Giulio Galasso, Acri dicembre 1998.
  5. P. Colletta, Storia del Reame di Napoli (Dal 1799 sino al 1913), volume II – Editrice Bietti Milano 1930.
  6. A. Rotondo, Memoria storica sulla rivoluzione antinapoleonica dei calabresi, Tip. Dott. Silvio Chiappetta, Cosenza s.d.

 






1860 - COSÌ SI VEDEVANO GLI ITALIANI

di Giuseppe Abbruzzo

 

Il lume a gas, “giornale della sera”, sorto in Napoli nel 1860. Sul n. 20 dell’a. I, datato 26 luglio 1860, riporta una considerazione che ci ha attratto e della quale vogliamo mettere a parte chi ci segue.

A p. 78 - la numerazione delle pagine seguiva, in successione, partendo dal n. 1 - è riportato l’articolo dal titolo L’Italia e gl’italiani.

 “Degl’Italiani (…) ve ne sono di molte condizioni - si legge -. Non perché sentite dire, questo è un vero Italiano, dovete credere che ciò voglia significare parlare la lingua del e quindi tutti essere del bel paese che Appennin parte e il mar circonda e l’Alpi. I veri Italiani sono scoperta posteriore alla scoperta del giuseppismo, del vittorismo, e del camillismo, e si sono introdotti dove dodici o undici anni prima, dove dodici o undici anni dopo. Noi siamo sempre degli ultimi nelle invenzioni e scoperte; ma una volta che ci siamo avviati, e che abbiamo preso ad imitare, vogliamo superare gli stessi inventori. E quindi se in Napoli trovate un solo che non sia un vero Italiano vi dò centomila becchi gratis, ed anzi tutto il gassometro. Dal Lavinaro a S. Lucia, dal borgo di Loreto a S. Elmo tutti sono veri Italiani.

Ma la differenza di cui noi parliamo, quelle tali gradazioni degl’Italiani stanno nelle epoche del loro battesimo. Vi sono i veri Italiani di ieri, quelli d’oggi e quelli del domani. La condizione degl’Italiani del domani e la più comoda. Sono di quelli che amano meglio la gallina domani che l’uovo oggi. Essi trovano il cocco mondato e buono, e non pertanto avranno il dritto di petizione di chiedere il pane quotidiano per essi, e dimostrarsi come veri e incontrastabili Italiani. Gl’Italiani di ieri sono quelli che hanno gustato le dolcezze dell’esilio, i vantaggi del carcere, le fraterne concessioni delle persecuzioni e delle destituzioni. Gl’Italiani di ieri parlano poco e fanno fatti. Non affacciano pretensioni e non domandano. Aspettano che l’Italia si faccia, e lavorano ad hoc. Finalmente gl’Italiani d’oggi sono quelli che raccolgono l’eredità dagl’Italiani di ieri, e che preparano poche bricciole di pane per gl’Italiani di domani. Essi si credono i veri Italiani hanno in mano lo stivale. Guardano in cagnesco i veri Italiani di ieri fingendo di amarli e di abbracciarli, e si affaticano a gridare per tutto mondo e in altri siti, che i veri veri Italiani sono dessi, perché han salvato l’Italia.

Chi veramente farà l’Italia degl’Italiani? Quelli di ieri, quelli d’oggi, o quelli di domani? Aspetteremo e vedremo. Ma i più che assicurano e gridano di volersi distinguere sono però gl’Italiani di domani… purché il tempo sarà buono, e non vi sia timore di tropea”.

È proprio vero: - Non è cambiato nulla! -. Ancora oggi abbiamo gli Italiani di ieri, di oggi e di domani e il popolo… ne è cavia e vittima.

Possibile che a 157 anni di distanza non sia cambiato proprio nulla, mentre il popolo spera e, come dice il popolo calabrese, disperato muore?

I tuoni, altro giornale sorto a Napoli nel 1860, come si evince dalla testata tuonava, quotidianamente, e non poco.

Ai fianchi della testata sono riportati i seguenti versi: “Quante cadute / si son vedute! / Chi perse il credito, / chi perse il fiato, / chi la collottola / e chi lo stato! = Ma capofitti / cascaron gli asini! / Noi valentuomini / siam sempre ritti, / godendo i frutti / del mal di tutti!”.

In apertura del n. 67, a. I (Napoli 29 settembre 1860) sotto il titolo: Lampi e tuoni si legge, fra l’altro, delle assunzioni di parenti, tanto care, ancora, ai nostri giorni. Salvo che, oggi, il colto in fallo nega giurando e spergiurando di essere all’oscuro di tutto. Si dice, però, tra il popolo, che S. Nicola abbia recitato: - Prima le mura di dentro e poi quelle di fuori -, volendo con ciò giustificare il nepotismo e l’arraffare per assicurare vita agiata a sé e ai familiari. S. Nicola, ovviamente, non pronunciò mai quelle parole. Ma ognuno giustifica come può e come sa le proprie malefatte. Sciocco è chi gli crede.

Veniamo all’articolo: “Signori è caduto.

È stato, è stato; ma finalmente il giornale che prima si chiamava costituzionale ieri sera ci annunziò che era stata accettata la dimissione di Romano, Pisanelli, d’Afflitto, Scialoja e Ciccone.

Ed un nuovo Ministero è salito, per fare occupare dai propri amici e parenti gl’impieghi rimasti vacanti.

Di una cosa sola siamo meravigliati, ed è la seguente - Perché, dei censessanta, solo Ciccone si è dimesso, ed i Signori de Cesare e Giacchi non ci hanno peranche pensato, mentre essi, come il Signor Romano, appartenevano al Ministero di Bombino (ndr Francesco II di Borbone)?..

È inutile: non tutti hanno l’abnegazione di rifiutare centosessanta ducati al mese, più il piacere di non far rimanere scontento nessuno dei parenti ed amici, e di potere infeudar tutta in un ministero la propria razza, salvo la venuta di un nuovo dispensator d’impieghi, che la spazza interamente in beneficio dei propri cugini e nipoti”.

La requisitoria continua, facendo rilevare che il “nuovo” è più vecchio del “vecchio”.

Risparmiamo ai lettori, specie ai giovani, queste dolorose elucubrazioni.

La “pagnotta”, purtroppo, è appannaggio dei soli parenti. A meno che… a meno che il popolo, ribellandosi, pacificamente, faccia pagare salate le malefatte, che si continuano a perpetrare a distanza di 157 anni dalle promesse non mantenute.

È proprio vero: gli Italiani non bisognava farli. All’indomani dell’Unità, come si vede, erano belli e fatti!

abbruzzog@tiscali.it

 

 


ASPETTI DEL MONDO   MAGICO

Credenze - Imbroglioni - Creduloni

di Giuseppe Abbruzzo

 

Si ritiene dal nostro popolo che alcuni giorni siano nefasti. Il martedì e il venerdì si sconsiglia di non partire, contrarre matrimonio, dare inizio a lavori e altro:

‘E vènnari e de marti:

né si ‘nzura, né si parti,

né si dà principiu ad arti.

In Spagna, il detto suona:

Né de vierne, né de martes,

no te casa, no te partes.

Così i giorni del mese di maggio sono nefasti per contrarre matrimonio. Si ritiene, anzi, che fra questi ve ne sia solo uno, ma se ne ignora quale. Allora, a evitare d’incapparvi, si preferisce non sposare nell’arco di questo mese, anche perché, rileva qualcuno, in esso si sposano gli asini.

La credenza viene da lontano: Egiziani, Etruschi, Romani osservavano tempi e giorni, cercando di evitare quelli ritenuti nefasti. Ludovico Antonio Muratori scrive: “Ma quanto pertinace fosse quest’empia osservanza anche fra i seguaci di Gesù Cristo ne abbiamo l’esempio ne’ giorni egiziachi osservati da più remota antichità fino al secolo XVI (Dissertaz., 59). Lo stesso, nel luogo citato, riporta di un Breviario romano scritto intorno all’anno 1480, dove sono annotati giorni e ore “perniciose”. Il Furetiere riporta che nei calendari stampati in Francia i giorni erano distinti in “les jours heureux, et les jour malhereuz”.

Altra credenza, ancor viva fra noi, è quella dei sogni. Si presta, perciò, fede alla loro interpretazione fatta da esperte. Queste, seguendo un metodo tramandato oralmente, li rendono chiari.

Comunissimo e seguitissimo è il prestar fede agli astrologi.

L’imperatore Tiberio scacciò dall’Italia Vitellio, che praticava quest’arte, secondo quanto ci tramanda Svetonio. Costanzo ordinò che fossero puniti con la morte quanti vi prestavano fede e li consultavano (Codex Theod. Lex IV). Carlo Magno: “Ut nemo sit qui Ariolos suscitetur, vel omnia observet etc”, si legge nella Dissertazione 39 dell’opera del citato Muratori.

Nonostante tutto si avevano maghi, streghe e incantatori. Questi erano soliti, nelle loro pratiche, invocare il demonio con i nomi di angelo santo, angelo bianco, angelo nero. Questo si rileva dal Sacro Arsenale, ovvero Pratica dell’Officio della Santa Inquisizione (Roma, 1695).

Gli antichi Galli credevano che, alla nascita, ogni bambino fosse affiancato da un angelo bianco buono e uno nero malefico: “suivant Saint Augustin reconnaissaient deux genies qui s’attachoient aux hommes de l’instant de leur nassance, l’un blanc et favorable, l’autre noir et malfaisant”. Le dette potenze: una positiva e l’altra negativa, perciò, erano riconosciute secoli prima dell’avvento dell’Inquisizione.

Stralciamo da una delle sentenze riportate nel Sacro Arsenale: “Essendo che tu N. fosti gravemente iniziato in questo ecc. Che avessi fatto alcuni esperimenti magici e negromantici ad effetto di ottenere risposta dagli spiriti aerei, con far circoli e recitar scongiuri, ed invocar demonj, e con molte superstizioni e nomi incogniti, credendo che i detti spiriti dovessero comparire in forma umana e ragionar teco”. Nello stesso volume si leggono le istruzioni per gli inquisitori. Le riportiamo, per evidenziare quale e quanta fosse la credulità anche dei cosiddetti “dotti” del tempo.

La Chiromantia, siccome è sempre superstiziosa, e sovente sospetta di commercio col Diavolo, ed alle volte molto dannosa, così ragionevolmente (…) Non è lecito né dai Maghi né dagli Astrologi, ricercare ove sieno tesori, perché non possono ciò sapere i Maghi, se non ne spiano dal Demonio; e gli Astrologhi a tal effetto si servono pure dell’opera di lui (…)

Di più avvertano i Giudici che quantunque alcuna donna resti convinta o confessa, di avere fatti incanti e sortilegi ad amorem ovvero ad sananda maleficia, o a qualunque altro effetto, non segue però ch’ella sia strega formale, potendo il sortilegio farsi senza formale apostasia al Demonio. E strega formale deve riputarsi, ed è colei che avrà fatto patto col Demonio, ed apostatando dalla fede, con i suoi maleficj e sortilegj, danneggiato una o più persone, in guisa che ne sia loro seguita per cotali malefizj e sortilegj la morte ecc. e se non la morte, almeno infermità, divorzi, impotenza al generare o detrimento notabile agli animali, biade, o altri frutti della terra, che perciò se consterà in giudizio che alcuna donna sia di tanto e sì grave delitto rea, dovrà, per vigore della nuova Bolla Gregoriana, nel primo caso anco per la prima volta rilasciarsi al braccio secolare, e nel secondo perpetuamente essere murata”.

Ancora ai tempi nostri c’è chi interpreta i sogni, come riportato, e non poche sono le pubblicazioni per farlo; si vedono su giornali e riviste gli oroscopi, mentre maghi e dotti del paranormale abbondano. Si vede, in apposite trasmissioni televisive, chi, invece di tenersi per sé i numeri vincenti del lotto e del superenalotto, li dà ai gonzi convinti dei poteri del furbacchione. Una domanda è da farsi: - Come mai si tollera tanto? -. Se c’è gente che non sa proteggersi da sola chi deve farlo? Intervenire a truffe avvenute è giusto e ottimo, ma non sarebbe più giusto stroncare in partenza l’abuso della credulità umana? -.

Ottavio Mazzoni Toselli, nel 1831, commentando le ingenue credenze, scrive: “È da sperare che questi errori, o per meglio dire questi avanzi della superstizione pagana, che i patiboli non poterono distruggere ne’ secoli della ignoranza, sieno per essere distrutti nei tempi avvenire dalla derisione, e dal disprezzo”.

A quasi due secoli di distanza, egregio signore, se le è dato sentirci da qualche parte, tutto è come ai suoi tempi e la derisione e il disprezzo per le sciocche credenze è ancora di là da venire.

abbruzzog@tiscali.it

 


ANCHE CARPANZANO DIEDE LA CITTADINANZA ONORARIA A FUMEL

di Giuseppe Abbruzzo

 

Abbiamo pubblicato la concessione della cittadinanza onoraria a Fumel da parte della città di Bisignano e citato come fecero altrettanto Cosenza e paesi della provincia.

Non mancò, fra questi, Carpanzano. Ne scriviamo per documentare come anche chi infierì al di sopra della legge e della morale è glorificato come eroe e chi avrebbe meritato tale riconoscimento giace nell’obblio

Ecco la delibera del Consiglio municipale:

“L’anno 1862, il giorno 4 giugno in Carpanzano.

Riunito il Consiglio Municipale. - La Giunta Comunale propone che il Consiglio offre la Cittadinanza di Carpanzano al Maggiore Cav. Pietro Fumel, con dichiararlo benemerito della Patria, sul riflesso de’ servizii da lui prestati all’ordine, ed alla tranquillità pubblica colla distruzione de’ briganti che infestano le campagne a danno delle vite, e delle sostanze de’ pacifici cittadini.

Il Consiglio

Considerando come il primo, e precipuo scopo di ogni buon Governo è la sicurezza, e tranquillità pubblica, e guarantigia delle vite e sostanze de’ cittadini, che sono il vero bene di ogni popolo.

Considerando che dietro aver compiuta con ordine ammirabile una sorprendente rivoluzione, sia sorta da questa Calabra terra una classe di uomini perduti, che senza alcuno scopo politico, ma per solo fine di rubare, si è data sfrontatamente a scorrere le campagne, taglieggiando i proprietarii, uccidendo uomini, ed animali, e devastando masserie, compiendo le opere più nefande di vandalismo, con produrre danni incalcolabili al commercio, all’industria, ed all’agricoltura e pastorizia.

Considerando che tali assassini per quanto ristretti di numero, bastano ad infestare le campagne, e le pubbliche strade, e spargere il terrore negli abitanti distraendoli da’ loro pacifici lavori, con atti di barbarie in un’epoca di civiltà, e di progresso; quindi l’umanità, la società, la pubblica morale reclamano la pronta repressione, e distruzione di tali masnade.

Considerando come il Cav. Maggiore Fumel coadiuvato dai RR. Carabinieri, e dalle Guardie Nazionali, a cui ha saputo ispirare i più nobili sentimenti, abbia con immensa solerzia, ed energia, ed affrontando pericoli, e trapazzi di ogni sorte, in gran parte distrutti, ed arrestati tali grassatori, ridonando alle nostre contrade la tranquillità, e come con alacrità, e zelo istancabile continui nella nobile impresa.

Ad unanimità delibera

  1. Che non avendo altro miglior modo come addimostrare al sullodato cav. Fumel la gratitudine, che sente per Lui l’intera Popolazione di un comune, benché ristretto di abitanti, largo però di attaccamento all’ordine, ed al libero Governo Italiano, sul riflesso di quanto si è detto ne’ Considerando, si dichiari benemerito della Patria il sig. Pietro Fumel, offrendoli la Cittadinanza di Carpanzano. 2 –
  2. Che la presente deliberazione venga a cura del Sindaco spedita originalmente al sig. Fumel, pregandolo di gradire l’attestato di stima in essa contenuto. Fatto in Carpanzano oggi suddetto giorno, mede, ed anno.

Il Sindaco, e Consiglieri Comunali”.

 


LA SALINA DI LUNGRO NEL 1821-1868

di Giuseppe Abbruzzo

 

Abbiamo letto dei lavori nella salina di Lungro e abbiamo pensato che possano interessare le note che tracceremo in appresso. Nel 1811 Giuseppe Melograni fu inviato dal governo a visitare le saline delle Calabrie. Nel 1814 vi fu rinviato per proporre “quei ripari che lo stato caduco ed infelice di esse esigeva”. Questo lavoro incominciò da quella di Lungro, che era la più famosa e interessante fra tutte, perché la più ricca di “contenuto salino”. La memoria sulla suddetta salina fu presentata dal Melograni nell’Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli, nella seduta del 23 agosto 1821.

La descrizione della salina è la seguente:

“I lavori di questa salina cominciati una volta male, proseguirono avanti malissimo. Spiriti oltra senza i principj della scienza montanistica, vale a dire senza disegno e provvidenza alcuna, doveano naturalmente risentirsi di un vizio radicale che presto o tardi tendeva a paralizzare il proseguimento di essi. In verità si lavorava là a destra e a sinistra come dettava il caso e l’ignoranza; ove la fatica era minore e la spesa più tenue; ove si potea ottenere in minor tempo un maggior prodotto in sale senza aver riguardo alcuno alla vera e soda economia, e senza prendere in considerazione la salute e la vita de’ minatori”. L’inviato entra dalla buca del Mandriglio, che era il solo ingresso della miniera. A proposito del toponimo congettura: “Forse detto da mandra, perciocché in esso si adunavano insieme ufjiziali, commessi, facchini, muli e vetturini”.

Nel 1821 dà un’utile informazione: “Oggi in vece sua esiste un magazzino edificato da poco tempo”. Il primo inconveniente che nota e sull’architettura sotterranea: “Ci sono molti cunicoli, passaggi e piazze, camere e vani, più o meno lunghi e larghi, alcuni dei quali non sono affatto fortificati, ed altri malamente; indi è che le volte soprastanti sono poco ferme e sicure. Non si conosce in essa l’intravamento fatto di legname, né la maniera di adattarlo, né tampoco si sa il muramento a calce. Alcuni di quei passaggi o cunicoli interni sono, come dicono quei direttori, fortificati ma di un modo stupido e barbaro. Tirano per esempio ove bisogna un segmento di cerchio, o due lati di un quadrato, e vi alzano un muro a secco, formato di barda, cosi detta nella lingua vernacola, composta di marna e sale, compagna indivisibile degli strati salini, da cui raso il sale che può facilmente staccarsi, il resto si abbandona come inutile e si conserva per le mura a secco”.

Critica il modo di mettere in atto gli utili muri se “avessero lo stesso punto d’appoggio in tutti i sensi, o pure qualora il peso gravitasse da pertutto ugualmente. Ma il fatto si è che molte di esse si veggono uscite di sesto, e la montagna sovrastante labile ed abbassata minaccia ad ogni istante di seppellire vivi tutti quei che vi lavorano dentro”.  Il suddetto riporta una serie di altre incongruenze e infine dà i suggerimenti necessari a rendere sicura e produttiva la miniera. Nel 1867 il Ministero delle finanze presenta un progetto all’apposita Commissione composta dai deputati Martinengo, Camuzzoni, Lualdi, Martelli-Bolognini, Michelini, Chidichimo, Cedrelli, Serafini e Calvino.

Si relaziona sul progetto di legge presentato, nella tornata del 16 maggio 1867, tendente alla “Autorizzazione di spesa straordinaria sul bilancio 1867 del Ministero delle finanze per lavori urgenti di costruzione necessaria alla regia salina di Lungro”. La discussione alla Camera dei Deputati, per l’autorizzazione della spesa per ammodernare la salina di Lungro, avvenne il 31 gennaio 1868.  L’ing. Pellati aveva fatto notare al Ministro delle finanze che le condizioni della miniera erano precarie e pericolose per chi vi lavorava. “In questa miniera - introduceva il presidente - non v’hanno pozzi e gallerie regolari; l’accesso ai lavori ha luogo per anditi e scale tortuose e irregolari; perciò i trasporti interni e l’estrazione dei materiali sono fatti a schiena d’uomo da oltre 300 operai in miserrimo stato. Gli scavi sono praticati senza alcuna regola d’arte né vi si possono adoperare le mine, perché produrrebbero scoscendimenti e vizierebbero sempre più l’aria già poco respirabile”.

Gli sterri, come già evidenziato da Melograni nel 1821, restavano abbandonati e ingombravano i passaggi e “le pareti scavabili”. La ventilazione era scarsa tanto “che gli operai spesso sono costretti a sospendere i lavori e ad uscire dalla miniera. I magazzini angusti e mal disposti minacciano rovina di giorno in giorno, non sono suscettibili di venire riparati, e quindi debbono essere riedificati su di un nuovo piano”.

Questa in breve l’introduzione del presidente.

I progetti presentati dagli ingg. Patrelli, Pellati, Tajani si erano ritenuti poco adatti e costosi, perciò, si proponeva quello dell’ing. Pellati che prevedeva un pozzo verticale di ventilazione e di estrazione, già proposto dal Melograni nel 1821. Si aggiungeva a quest’ultimo “un apparecchio di estrazione e di evaporazione”.

La Commissione, prima di entrare nella discussione del progetto proponeva che il governo dovesse vendere la salina a privati:

“In quanto poi alla salina di Lungro - si legge - la vostra Commissione è di opinione ch’essa debba essere al più presto concessa all’industria privata, come fu tentato dal ministro Sella col progetto di legge numero 280, presentato il 26 giugno 1862, e poi abbondonato; ma la quantità di sale che lo Stato dovrebbe acquistare dal concessionario importa che venga limitata a quella necessaria al consumo dei comuni più vicini”.

Cosa decide la Camera?

“invita il Governo a concedere la salina di Lungro all’industria privata, e preferibilmente a quel municipio, ed ove ciò non potesse aver luogo in tempo breve, a presentare altro progetto di legge per quelle spese che sono indispensabili, ed utili sempre qualunque sia l’avvenire della salina”.

Chi volesse saperne di più continui la ricerca, noi ci proponiamo di ritornare sull’argomento se troveremo qualcosa di interessante.


IL CREDO DI GINGILLINO E LA TRADUZIONE DE “LA PAGNOTTA”

di Giuseppe Abbruzzo

 

Gingillino è il personaggio del perfetto burocrate, creato e così ben descritto da Giuseppe Giusti, che apre:

Sandro, i nostri Padroni hanno per uso

di sceglier sempre tra i servi umilissimi

quanto di porco, d’infimo e d’ottuso

pullula negli Stati felicissimi

Il credo di Gingillino, è recitato seralmente:

- Io credo nella Zecca onnipotente
e nel figliuolo suo detto Zecchino,
nella Cambiale, nel Conto corrente,
e nel Soldo uno e trino:
credo nel Motuproprio e nel Rescritto,
e nella Dinastia che mi tien ritto.

Credo nel Dazio e nell’Imposizione,
credo nella Gabella e nel Catasto;
nella docilità del mio groppone,
nella greppia e nel basto:
e con tanto di core attacco il voto
sempre al santo del giorno che riscuoto.

Una rivisitazione del riportato credo è contenuta ne La pagnotta, giornale napoletano dell’Ottocento, del quale abbiamo dato notizia altra volta, dal titolo Il credo di Gingillino:

      Credo nella Pagnotta onnipotente,

e nel figliuolo suo detto Torino -

nel bilancio, nel prestito corrente.

E nel regno uno e trino -

Credo di Villafranca nel rescritto

e credo all’Unità, che mi tien ritto!

      Credo pur nella tassa del registro,

nel decimo di pace e in quel di guerra -

mi formo un nume di ciascun ministro,

mi pare un Dio in terra -

di Rattazzi e Ricasoli son schiavo,

e quando si fucila io dico bravo!

      Spero così d’aver sempre bottega

fino che andremo a Roma, - ed a Venezia -

e se un dì se ne va cotesta bega

mi sembrerà un’inezia;

ché virando di bordo e con giudizio,

devoto ognor sarò a S. Pagnottizio.

Diciamo di tempi passati, perché la storia vera, quella dalla quale veniamo è questa. Ognuno, poi, se vorrà potrà riflettere sul presente, perché noi non mettiamo lingua.

abbruzzog@tiscali.it

 

 

 

 

 




I PREZIOSI APPUNTI DI DON LEOPOLDO

di Giuseppe Abbruzzo

 

Leopoldo Pagano, nato a Diamante (CS) il 23.5.1815, è notissimo scrittore e storico. Vestì l’abito talare. Laureato in lettere e filosofia nell’Università di Napoli insegnò nei seminari di S. Marco e Bisignano. In quest’ultimo fu canonico nella locale cattedrale. Numerose sono le sue apprezzate pubblicazioni, delle quali alcune postume. Morì a Napoli il 10 aprile 1862. Lasciò manoscritti inediti, nei quali si colgono, fra l’altro, notizie interessanti. Pensando di far cosa utile per i “miei venticinque lettori” li trascrivo pedissequamente.

* * *

Nelle montagne di Verbicaro e di San Donato si è scoperto nel 35 (ndr 1835) in un ripostiglio delle monete di argento della Repubblica romana, che furono nascoste come quelle di Cirella e di Diamante, verso il 50 a.C.”.

“A Rogiano nella Serra de’ Testi1 o sia rottami vi sono molti frammenti di grossi mattoni, che hanno dato quel nome; i quali mattoni, doppii circa tre once (cinque o sei dita), larghi più di due palmi si ritrovano anche in Castiglione e dentro Rogiano2. Ci si è trovato pure un doglio3 (di olio)e altri vasi fittili, due monete di argento con un leone, che azzanna un cervo, e l’altra con un uomo a cavallo un …. (illeggibile) con biga, e nel rovescio una testa galeata di L. Licineo4, Gneo Domizio5 … (illeggibile) circa il 92 a.C.”.

* * *

Nel saggio su Bisignano L. Pagano riporta sinteticamente notizie su ritrovamenti archeologici. Negli appunti manoscritti si rinvengono notizie più minuziose:

La città di Bisignano è ricca di anticaglie. Vi sono stati scoperti tre sepolcreti l’uno a Mastro Raffo (1821) con urna cineraria o vasi mortuarii, con lucerne, un cucchiajo e una forchetta, e colà presso nel 43 (ndr 1843) si trovò un sepolcro di creta: il secondo (1845) a Ferramondo con urne e lucerne, con arnesi di ferro somiglianti alle forbici, e il terzo nell’aja o Timpone di Varolo, che è un rialto tumulario, dove si sono trovati più di trenta vasi o urne grandi sepolcrali, lucerne di creta; e vasi lacrimali di manifattura greca e con monete italogreche”.

Viene da chiedersi: - Dove sono finiti i reperti suddetti? Se ne ha notizia? -.

In caso di risposta affermativa, sarebbe interessante saperlo.

* * *

L. Pagano si sofferma, ancora, sul carattere e sui “blasoni” rimpallati fra acritani e bisignanesi:

Gli Acritani, rozzi montanari, hanno, come un dì i Greci venuti sotto signoria, una indole servile confermata dalla signoria del forte patriziato.

E, poi,:

Gli Acritani ingiuriano i Bisignanesi, volendo dire che sono bilingui, usano il proverbio,

Bisignano ha sette facce6

e questo proverbio e diffuso per la Calabria. All’incontro i Bisignanesi accusano di rozzezza gli Acritani, dicendo

Se Cristo fosse Acritano,

anche avrebbe il pelo bizzarro7.

Del resto l’uno e l’altro popolo, non ostante le piccole differenze, dell’indole, vanno in buona armonia, e si amano.

Poi la plebe di Bisignano è infingrada, non curandosi del presente, e tarda a pensare all’avvenire (…) Per altro il popolo di Bisignano ha buone maniere; ma conserva superstizioni e pregiudizii forse più di ogni altro popolo.

 

 Un dato su Bisignano è interessante, colta fra le note suddette: “In Bisignano (1846-1850) la pastorizia non era abbondante, e le pecore e le capre si facevano ascendere a circa cinquemila capi”. Ai tempi nostri una mole così ci sembra enorme, allora sembrava ben poca cosa.

Ancora su ritrovamenti in Acri e Bisignano:

… soldi di oro o denari aurei, i quali furono trovati a Bisignano e ad Acri, specialmente con circa 100 consimili di oro di Costantinopoli, di Benevento, di Bagdad, che trovansi insieme nell’agosto 1857 in un ripostiglio del Reno di Bologna e che debbonsi riferire di certo infra gli anni 717 e 813 (…) quelle di Acri per le teste degli augusti e per la croce potenziata si ascrivono a Leone III Isaurico8, di già defunto a Costantino V Capronimo9 e Leone IV Cazaro10 che nel 751 fu dal padre fatto partecipe dell’impero.

 

[1] I testi, in dialetto tìesti, che danno origine al toponimo, sono i cocci di terracotta.

2 All’epoca in cui scriveva Pagano la denominazione del paese era Rogiano che, nel 1864, fu cambiato in Roggiano Gravina

3 Il “doglio”, usato per contenere olio, è il latino doleum = giara, orcio. In dialetto è ciàrra, zirru.

4 Lucio Licinio Crasso (140 a.C. 91 a. C.) fu console nel 95. È ricordato, anche, come ottimo oratore.

5 Gneo Domizio (17 a.C. 41 d.C.) sposò Agrippina minore, perciò era padre naturale di Nerone.

6 Nel dialetto acritano suona: Tieni setti facci cum’ e Bisignànu.

7 In dialetto acritano: Si Gesucristu fussi ‘n acritànu / pur’ill’ avèrra lu vizzarru pilu.

8 Leone III l’Isaurico (675 c.a - 741 d.C.) fu acclamato imperatore d’Oriente nel 717, in sostituzione di Teodosio III. Era detto Isaurico dalla regione di provenienza.

9 Costantino V Capronimo (718-775 d.C.) fu incoronato imperatore d’Oriente nel 720 d.C.,

10 Leone IV, detto il Cazaro, (750c.C. 780). Fu avvelenato probabilmente dalla moglie.

 

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MALEDETTI BORBONE?!

di Giuseppe Abbruzzo

 

Ai giorni nostri si parla tanto di pensioni. Noi, che razzoliamo tra vecchie carte, abbiamo voluto vedere quei tanto deprecati Borbone cosa prevedevano in merito.

Precisiamo - se ve ne fosse bisogno e una volta per tutte - che non rimpiangiamo quei re e tanto meno quei tempi, noi siamo repubblicani convinti. Dato che fra i banchi di scuola di quei governanti se ne parla tanto male, cediamo non alle chiacchiere, ma, come siamo soliti fare, ai documenti.

Già durante la dominazione dei napoleonidi si erano avute leggi, che si richiameranno - precisiamo che quella del 1808 non è del 4, ma del 5 gennaio - rifacentesi a quelle della Repubblica Napoletana del 1799.  Ci interessa segnalare, comunque, quanto stabiliva il decreto del 1816.

Riteniamo giusto riportarlo integralmente e pedissequamente, lasciando ogni commento agli attenti lettori.

 

Il Min. Segret. di Stato, firm., TOMMASO DI SOMMA

(N° 547) Decreto che fissa il sistema pe’ trattamenti di ritiro degl’impiegati civili e militari e le pensioni delle loro vedove ed orfani.

Portici, 3 Maggio 1816.

FERDINANDO IV PER LA GRAZIA DI DIO RE DELLE DUE SICILIE, ec.

Volendo Noi rendere uniforme la liquidazione de’ trattamenti di giubilazione e de’ soldi di ritiro degl’impiegati civili e militari dello Stato, e delle pensioni e sussidj delle loro vedove ed orfani;

Visto il rapporto del nostro Segretario di Stato Ministro delle finanze;

Abbiamo DECRETATO e DECRETIAMO quanto siegue:

ART. 1. A contare dal dì 1° di luglio del corrente anno, le leggi e decreti pubblicati in tempo della occupazione militare in data de’ 19 di novembre 1808, de’ 4 di gennajo e del 20 di dicembre 1810 e de’ 4 d’agosto 1812, o qualunque altra legge, decreto o ministeriale instruzione ordinante la ritenzione del 2 e mezzo per cento su’ soldi degl’impiegati civili, ed i modi di liquidazione delle pensioni di ritiro e vedovili, cesseranno di essere in osservanza. Siccome ancora cesseranno dal dì 1° di luglio in poi di essere in osservanza le leggi e statuti emanati in Napoli prima dell’occupazione di questo regno, e durante la nostra permanenza in Sicilia, riguardante il monte delle vedove dell’armata di terra e di mare, e tutti e quali si vogliano ordini e stabilimenti di pensioni di vedove, orfani e ritirati dal real servizio.

2. Sarà in vece eretta dal detto dì 1° di luglio una nuova amministrazione sotto il nome di Monte di vedove e di ritirati.

3. Tutti gl’impiegati tanto civili che militari i quali ricevono soldi di nostro regio conto, tanto general tesoreria, quanto dalle altre amministrazioni, avranno dritto alla pensione di ritiro sul detto monte dal dì 1° di luglio del corrente anno 1816,

Vi avranno anche dritto i soldati e bassi uffiziali de’ corpi dell’armata di terra e di mare, quantunque in vece di soldo mensuale sieno pagati in prest giornaliero; e la liquidazione ne sarà fatta colle seguenti proporzioni di anni di servizio continuato e non interrotto per dimessioni e riammessioni; cioè:

Dopo venti anni ed un giorno, qualunque sia l’età dell’impiegato, avrà dritto ad una pensione di ritiro di giustizia eguale al terzo del suo soldo;

Dopo venticinque anni ed un giorno, alla metà;

Dopo trenta anni ed un giorno, a due terzi;

Dopo trentacinque anni ed un giorno, a 5 sesti;

Dopo quaranta anni ed un giorno, alla totalità.

Il primo soldo che si è percepito dallo Stato, e pe’ soldati e bassi uffiziali della nostra armata di terra e di mare il primo giorno della percezione del prest fissa l’epoca dalla quale si contano gli anni di servizio, quante volte questo soldo o prest giornaliero sia stato soggetto alla ritenzione del 2 e mezzo per cento, o vi sarebbe stato soggetto se la ritenzione fosse stata instituita anteriormente all’occupazione militare.

4. Per gli attuali impiegati gli anni di servizio con soldo percepito precedentemente all’occupazione militare, possono cumularsi con quelli durante la detta occupazione, purché sieno stati riconfermati nell’esercizio delle loro funzioni dopo il nostro ritorno nella capitale.

Coloro che prima erano impiegati, e che nel tempo della occupazione militare o non vollero prestar servizio, o furono senza propria colpa congedati, e che dopo il nostro ritorno abbiamo rimessi in attività di servizio, sono considerati come non mai rimossi legalmente dalle proprie cariche.

5. Per compensare la fedeltà de’ nostri impiegati tanto civili che militari nati nel regno di Napoli i quali durante l’occupazione militare di questo regno ci han prestato servizio in Sicilia, o altrove per nostra speciale commessione, e vi abbiano perdurato sino alla fine della guerra, facendo ritorno nel regno di Napoli dopo il dì 23 di maggio 1815, vogliamo che ciascun anno di servizio compreso tra il corso degli 11 di febbrajo 1806 ed il 23 di maggio 1815, sia per essi, nella liquidazione delle pensioni di ritiro, e in caso di loro morte, della pensione vedovile delle loro mogli, contato per anni due.

6. Con altro mostro decreto sul rapporto del nostro supremo Consiglio di guerra e del nostro Ministro di marina ci riserbiamo di formare pe’ nostri uffiziali, soldati, bassi uffiziali e marinaj della nostra armata una proporzione o sia scala di diminuzione di anni di servizio, richiesti a conseguire il ritiro per campagne di guerra viva, ferite e mutilazioni sofferte in servizio di guerra.

7. Le vedove degl’impiegati civili e militari di terra e di mare e de’ soldati e bassi ufficiali, quante volte la di loro vedovanza succeda dal 1° di luglio in poi, hanno dritto ad una pensione eguale alla sesta parte sul soldo de’ loro mariti, purché sieno morti dopo 20 anni ed un giorno di servizio con soldo, e pe’ soldati e bassi uffiziali, con prest soggetto a ritenzione: e la pensione avrà come sottintesa la condizione, durante lo stato vedovile, e col peso di mantenere i figli.

La condizione de’ venti anni di servizio del defunto marito sarà dispensata per quelle vedove militari soltanto, i di cui mariti sieno morti per ferita ricevuta combattendo contro il nemico, o nell’esercizio della forza pubblica contro i malfattori.

Le vedove militari non potranno altrimenti ottenere la pensione, che producendo la nostra real licenza di matrimonio.

Per liquidare la pensione di quelle vedove, i cui mariti saranno morti in pensione di ritiro, si prenderà per base quel soldo stesso su cui fu liquidata la pensione del defunto.

8. Allorché la vedova passerà a seconde nozze o cesserà di vivere, la sua pensione sarà distribuita a porzioni eguali fra i figli maschi e le femmine, a’ primi sino all’età di diciotto anni, ed alle seconde durante lo stato nubile: e maritandosi, sarà loro dal gran libro pagata, sopra uno stato di distribuzione straordinaria, un annata della quota della pensione di cui si troveranno godendo, oltre le rate già maturate: e resterà indi estinta.

Se l’impiegato lascerà de’ figli a cui la madre sia premorta, avranno lo stesso dritto che si è detto nel paragrafo precedente, quando la vedova passa a seconde nozze.

9. Il soldo che si prenderà per base nella fissazione delle pensioni, sarà l’ultimo goduto, sia per la fissazione delle pensioni di ritiro, sia per le vedovanze, quante volte sia stato percepito per due anni continui: in caso diverso si prenderà per base il soldo precedente.

Sono eccettuati da questa regola i nostri benemeriti sudditi enunciati nell’articolo 5, pe’ quali nella liquidazione della pensione di ritiro o di vedovanza delle loro mogli, sarà preso per base il soldo che godono, non ostante che non l’avessero goduto pel corso di due anni.

10 Non saranno poste a calcolo per le pensioni di ritiro e vedovanze le gratificazioni, rappresentanze, indennità, pigioni di casa, cd altre pensioni inscritte su i fondi generali del gran libro, o proventi di qualunque natura.

In conseguenza di questo principio, nelle liquidazioni di ritiro de’ nostri Ambasciadori, Ministri plenipotenziari, Inviati straordinarj, Residenti ed Incaricati di affari nell’estero, e delle pensioni di vedovanza delle loro mogli, non potrà esser preso per base il loro soldo intero, ma ne sarà presa per base la sola terza parte, considerandosi le altre due terze parti come una specie d’indennità di rappresentanza.

Se alcuno impiegato per nostra special grazia si troverà godendo di due soldi, la pensione sarà liquidata sul soldo maggiore.

Sarà soltanto dispensato a questa regola per que’ nostri benemeriti sudditi enunciati nell’articolo 5, pe’ quali saranno presi per base i due soldi de’ quali per nostra special grazia stanno godendo.

Per la liquidazione della pensione di ritiro de’ soldati e bassi uffiziali e per la vedovanza delle mogli sarà preso per base il loro prest giornaliero in denaro, escluso il pane, vestiario e massa, ed ogni altra aggregazione sotto qualunque nome.

11. Per sottomettere la liquidazione delle pensioni ad un sistema di esame che ne assicuri compiutamente la regolarità, ordiniamo che la petizione ne sia indirizzata al Ministro nelle di cui attribuzioni l’impiegato starà servendo, munita de’ documenti comprovanti le condizioni richieste dal presente nostro decreto. Fattane la liquidazione della pensione corrispondente, il Ministro rispettivo la rimetterà co’ documenti anzidetti, per mezzo del procurator generale alla nostra Corte de’ conti, la quale apporrà in piedi della liquidazione il suo parere: e senza rinviarla al Ministero rispettivo, la indrizzerà al nostro Ministro di finanze, per esser sottomessa alla nostra sovrana approvazione. Non sarà esatto dagl’impiegati della nostra Corte de’ conti alcuna sorta di dritto per la sopraddetta revisione di liquidazione.

12. La ritenzione del 2 e mezzo per cento che in oggi si fa in virtù delle disposizioni in vigore sopra tutti i soldi civili, si estenderà dal 1° del prossimo mese di luglio a tutti i soldi della nostra armata di terra e di mare: di modo che il prodotto di questa ritenzione sarà dal detto dì 1° di luglio il fondo unico e speciale di tutte le pensioni di ritiro e vedovanze.

I gendarmi e loro bassi uffiziali, ricevendo soldi mensuali, rilasceranno sopra gli stessi il 2 e mezzo per cento, siccome lo rilasceranno egualmente i marinaj di pianta fissa, e tutti gl’impiegati di ogni classe, militari, civili ed amministrativi della nostra real marina.

I bassi uffiziali e soldati così di terra come di mare, i quali in vece di soldo mensuale ricevono prest giornaliero, rilasceranno sulla massa di biancheria e calzatura grana due e mezzo al mese, o sia grana trenta all’anno che terrà luogo di ritenzione del 2 e mezzo per cento, mediante la quale saranno essi ammessi alla pensione di ritiro di giustizia, e le loro vedove alla pensione di vedovanza, secondo le proporzioni prescritte nell’art 3.

13 Il nostro Segretario di Stato Ministro delle finanze formerà le instruzioni, che regoleranno il modo come eseguirsi la ritenzione del 2 e mezzo per cento, e versarsi nella cassa di ammortizzazione, la quale è da Noi incaricata dell’introito ed amministrazione de’ fondi delle vedove e ritirati, e di somministrare alla direzione del gran libro le somme necessarie al pagamento delle pensioni di giustizia di detto monte; tenendone scrittura a parte col titolo sopra indicato di Monte delle vedove e ritirati.

Il detto nostro Ministro delle finanze ci presenterà in ogni quadrimestre lo stato di situazione di detto monte.

14. Tutti i ritiri, vedovanze, assegnazioni ad orfani sin oggi da Noi concedute, tanto ad individui del ramo civile del regno di Napoli, quanto del militare in Napoli ed in Sicilia, o che sieno maggiori, o che sieno minori delle proporzioni stabilite col presente decreto, si rimarranno come sono, non dovendo il nuovo monte avere il suo cominciamento che dal sopraddetto dì 1° di luglio in poi.

15. Vogliamo però per la regolarità della scrittura del gran libro, che dallo stesso dì primo di luglio tutte le pensioni le quali sono state inscritte su de’ suoi fondi generali per ritiri e vedovanze civili e militari, siano passate al nuovo monte e pagate colle somme che saranno somministrate dalla cassa di ammortizzazione, siccome con altro nostro decreto sarà da Noi stabilito.

16. Se il fondo di tali ritenzioni non sarà sufficiente al pagamento delle pensioni anzidette, la nostra general tesoreria farà degl’impronti alla cassa di ammortizzazione, e ne sarà dalla stessa rimborsata allorché vi sarà capimento: e quando vi fosse sopravvanzo, sarà riunito a’ fondi generali della detta cassa di ammortizzazione.

17. Le pensioni dovendo essere considerate come puramente alimentarie, saranno esenti in ogni tempo e circostanza così dalla ritenzione del due e mezzo per cento, che da qualunque altra imposizione e ritenzione.

Saranno ancora esenti da sequestri ad istanza de’ creditori de’ pensionisti, purché il credito non abbia causa di pigione di casa o generi di vitto accredenzati.

18. I ritiri e vedovanze degl’impiegati della nostra real casa e de’ nostri siti reali, i di cui soldi son pagati o dalla tesoreria della nostra real casa, o dalle amministrazioni de’ nostri siti reali o della nostra cassa privata, saranno pagati dalle stesse amministrazioni, in di cui beneficio si stanno facendo le ritenzioni del 2 e mezzo per cento, secondo gli stabilimenti di già da Noi approvati: cosicché i detti impiegati sono considerati per le pensioni di ritiri e vedovanze come una classe a parte degl’impiegati civili e militari dello Stato.

19. Tutt’i nostri Ministri e Segretari di Stato sono incaricati della esecuzione del presente decreto. Firmato FERDINANDO

Da parte del Re

Il Ministro Segretario di Stato

Firmato, Tommaso Di Somma

Pubblicato in Napoli nel dì 18 di Maggio 1816.

 

abbruzzog@tiscali.it


LE PREBENDE D’ORO?...

di Giuseppe Abbruzzo

 

Gli stipendi e gli appannaggi d’oro, percepiti ai tempi nostri erano già stati inventati appena dopo l’Unità d’Italia.

È proprio vero, D’Azeglio sosteneva che bisognava fare gli Italiani, ma non aveva capito che gli Italiani erano belli e fatti!

Sul n. 1 de La Campana del Popolo di Napoli, di lunedì 21 ottobre 1863, nella rubrica Suonata a martello, si legge una nota dal titolo: Una famiglia fortunata.

Si penserà: - Avrà vinto un terno al lotto -. Non era così, ma era come se quel terno abbastanza ricco lo avesse vinto. Che dire: - L’Unità d’Italia gli aveva portato fortuna! -.

Cediamo la penna, si fa per dire, al redattore di quel giornale:

“Se la virtude eccede, in vizio la virtù cangiar si vede – N’è stato giocoforza il ripetere questi versi del poeta Cesareo, pensando al pleonasmo di gratitudine nel quale è incorso il nostro governo con la famiglia Trinchera di Ostuni.

Questa famiglia come potete vedere, è stata soffogata, schiacciata, oppressa, sepolta da’ soverchi impieghi.

Francesco Trinchera (ad evitar confusione di nomi chiameremo questo signore Francesco Primo) è sopraintendente degli archivii ed ha cencinquanta ducati al mese. Oltre a ciò è cattedratico emerito di economia politica in Bologna, ora proposto per Napoli, rimanendo così trascurato Flaviano Poulet.

Pietro Trinchera - È procuratore diocesano e becca a libito.

Giuseppe Trinchera - È ispettore delle scuole in Brindisi ed anch’esso pappa - È inoltre canonico.

Angelo Trinchera - È delegato di polizia in Taranto, e mangia.

Luigi Trinchera - È giudice in Castellammare e mangia e beve.

Beniamino Trinchera - Occupa un grado cospicuo nel genio civile, e pappa.

Oronzo Luigi Trinchera - È ufficiale nel dicastero di agricoltura e commercio e sta benissimo.

Francesco Trinchera (Ad evitar ogni confusione appelleremo quest’altro Francesco: Francesco secondo) È impiegato anch’esso al dicastero di agricoltura e commercio.

Viva la cuccagna!”.

Che colpa avevano se tutti i suddetti appartenevano alla stessa famiglia? Non poteva sapere quel redattore quanto significasse ai nostri tempi essere parente di, figlio di, nipote di, amico degli amici di. - Il mondo - diceva uno di questi - è andato sempre così… -. È vero, ma una buona volta si potrebbe correggere e fare in modo che il mondo andasse nel verso giusto?!

Allora, come dicono alcuni, le cose si facevano per bene. Infatti!... Vediamo come si facevano:

“La furia dell’accentramento ha fatto dei ministeri di Torino una Torre di Babelle. La confusione delle lingue è completa. Tra i mille fatti, per non iscandalizzare il prossimo, ne racconteremo uno o due. Alla sezione della suddetta Torre di Babelle, detta di agricoltura e commercio bisognavano dieci impiegati da far fronte agl’intralciati affari. Si scrisse di là al soppresso dicastero di Napoli: mandateci Tizio, Caio, Sembronio, Mevio e via fino a dieci che erano stati scelti. Da Napoli si scrisse essere pronti quei tali impiegati e che disponessero le indennità di viaggio perché subito sarebbero partiti. Al bel meglio, in risposta arriva in Napoli una dicasteriale in cui si domandava il nome di quei dieci impiegati che volevano partire!!!

Un secondo caso più degno di riso è quello avvenuto al governatore di Basilicata. Da Torino furono invitati alcuni impiegati di quel governo. Si rispose esser quelli contentissimi di andare nella provvisoria capitale d’Italia se si dassero loro le indennità di viaggio, giusta il decreto sovrano. In risposta, con una dicasteriale si diceva: Avete male inteso il decreto; esso concede le indennità agl’impiegati che da Torino si mandano nelle province meridionali, e non già a quelli che da queste si traslocano a Torino!!!”.

Ovviamente sono tutte cose che si verificavano allora. Ora è tutto chiaro, lampante, preciso e non si fanno certe porcate!

O no?... Fate un po’ voi.


QUESTA “PAGNOTTA” VA SOPPRESSA!

di Giuseppe Abbruzzo

 

Abbiamo riportato quanto si scriveva sulla nutrita schiera dei pagnottisti, accorrenti, come veloci cani dietro a politici e potenti del dopo Unità d’Italia.

In quei tempi, a differenza di oggi, si correva dietro al carro del vincitore di turno, per montarvi sopra e assicurarsi la pagnotta.

Nelle nostre scuole ci hanno insegnato e continuano a insegnare che l’Unità d’Italia diede la libertà al popolo e… alla stampa. Per la verità, stampa libera, allora, si diceva solo quella che menava l’incensiere ai Savoia e ai savoiardi, ossia ai “potenti di turno”.

In Napoli, come si è riportato, nel numero scorso, si pubblicava un giornale la cui testata era La pagnotta. In chiusura avevamo promesso di scriverne. Un articolo apparso sul quotidiano napoletano La Campana del Popolo (n. 18 dell’a. I, datato 7 giugno 1863), del quale era gerente responsabile Salvatore Curcio e si stampava presso lo stabilimento tipografico De Angelis, al vico Pellegrini, 4, si legge:

“In una delle recenti sfornate di Lazzari Mauriziani leggevasi la promozione a Commendatore di varii Cavalieri addetti alle Corti di Appello del Regno d’Italia.

Queste promozioni son frutto del come certi magistrati servono il Governo, mettendo il bavaglio alla libera stampa, della quale mostra di aver tanta paura un governo che si dice nato e forte della pubblica opinione.

E la paura va fino agl’innocenti epigrammi di un giornaletto umoristico… Infatti dopo tanto scalpore menatosi per Pulcinella, dopo che un Pulcinella è difensore, nel campo giornalistico, del ministero, è giusto che il governo tremi che la Patria sia in pericolo per le caricature e i mottetti di uno scrittore ameno.

Noi abbiamo saputo che a Torino - nelle sfere dei pagnottisti - siasi menato un po’ rumore per la Pagnotta la quale svela trame, lo scopo e i maneggi degli uomini della consorteria.

Ciò ne spiega la fretta con la quale il Fisco s’è fatto a sequestrare due numeri in una volta di quel giornaletto!

La Pagnotta di Napoli non può piacere a Torino, dove il monopolio delle pagnotte dev’essere esclusivo. Quindi va distrutta. Tre sequestri come è in Francia sotto l’Imperiale padrone compiranno la grand’opra!

Ad ogni modo, noi esortiamo il confratello, a non lasciarsi scoraggiare da queste persecuzioni governative - e tanto meno dalle basse calunnie, le quali non potranno giammai, addentare scrittori noti per ingegno e patriottismo di cui dettero ampie prove in tempi in cui coloro che disprezzano la Pagnotta di Carta, perché l’amano di tutt’altra materia, erano ad inneggiare ai Borboni - come oggi inneggiano all’Italia; - o in sicuro, lungi dal loro paese, in ozio beato, con occhio indifferente assistevano alle nostre sventure.

Queste parole ci son dettate dallo di confraternità che abbiamo con la Redazione della Pagnotta e dal bisogno di sostenere la libertà della stampa”.

I lettori potranno commentare quanto riportato. Noi diciamo che i pagnottisti esistevano in quei tempi non ai nostri. Diciamo ancora che non esistono più penne vendute, perché non devono leccare i potenti di turno e… fate un po’ voi.


 

 

W LA PAGNOTTA!

di Giuseppe Abbruzzo 

La pagnotta è importante. Il popolo diceva: - Si fatìga ppe’ la pagnotta! - (Si lavora per la pagnotta!). Questo, però, lo diceva chi lavorava e chi no, cosa faceva? In Firenze si pubblicava un periodico la cui testata era Lo zenzero. Sul n. 72 del 29 maggio 1862, si legge, in apertura, qualcosa di interessante. Si era, come si vede a pochi anni dall’Unità e già c’era chi s’arrabbattava per assicurarsi la pagnotta.

Chi la inventò? – chiederanno gli amabili lettori - Ecco la risposta:

 “La Pagnotta – scrive il redattore del citato giornale - è antica quanto il padre Adamo, che dopo il peccato costretto a coltivare la terra, ne raccolse il frumento, e cosse alla meglio delle schiacciate sotto la cenere, il panis sub Cinericens della Scrittura. I suoi discendenti riconobbero la necessità di codesto cibo, ed avendolo migliorato, seguitarono a mangiare la quotidiana pagnotta senza altro. Un giorno Helchisedecco, sacerdote e Re la consacrò al Signore nella valle di Sad, e da quel momento la Pagnotta ricevé un culto quasi divino, che si accrebbe coi secoli, e che ora specialmente in Italia ha più proseliti di ogni altra religione. Difatti noi vediamo coi capelli ritti una turba magna, dandosi degli urtoni e degli scambietti accorrere di ogni lato ai forni del Governo e delle Comunità, pigliandovi certe satolle da sfidarne il Cerbero e la Lupa di Dante”.

I Pagnottisti sono di diverso tipo e lo specifica bene il redettore del giornale fiorentino:

“Tra i Pagnottisti ve ne sono dei celati, vale a dire aspiranti, che si contentano di annusare, e topi romiti che come quel della favola, stanno racchiusi in un cacio marzolino, e rosicchiano a tutta possa. Ma di questi tali, se a prima giunta non si conoscono bene, confrontando poi i fatti coll’aspetto, facilmente se ne disvela la mal celata natura. Quel soldatone per esempio pieno di croci e di gesta che eseguisce a bacchetta gli ordini, i contrordini e i disordini di chi paga, quegli è un Pagnottista. Colui, uomo di stato, che dice di voler morir povero e compra ville e poderi, è un pagnottista. Quel deputato che sorride ad ogni detto del Ministro, ed arriccia il ninfolo quando parla Brofferio (ndr 1802-1866 - fu noto politico), aspetta l’adorata pagnotta di una Prefettura. L’uomo dei caffè e delle piazze che esalta sempre il Ministero che corre, leva al cielo ogni atto governativo, e declama contro i Liberali spinti che vogliono rovinare l’Italia e sono venduti all’Austria, il tapinello vocia tanto, per digerire una pagnotta di segale.

In quanto ai pagnottisti manifesti, due classi precipuamente si raccomandano all’attenzione del pubblico, cioè quella di alcuni Giornalisti, e quella degl’Impiegati.

Il giornalista della pagnotta si scuopre prima di tutto colla oscillanza della opinione. Non avendone una propria, l’accatta via via dai padroni, e quante volte essi mutano, altrettante varianti tu vedi nelle colonne del suo foglio. Inoltre insinua sempre la pace e l’ordine, e solamente chiede che provvisoriamente siano impiccati i suoi avversari. Esalta l’esercito e fa bene, ma scredita i volontari e i lor prodi condottieri con subdole tergiversazioni. Spaccia ogni ora diplomatiche speranze tarpa i discorsi del Parlamento; inventa i dispacci; temporeggia quando vi è pericolo; ninnola, ciancia, adula, lusinga, calunnia tutti i caratteri del favorito in livrea”.

Altri tempi! Oggi tutto questo non si verifica più. O no?!

Giovedì 21 maggio 1863, apparve a Napoli il I° numero de La pagnotta, che aveva come sottotitolo: Giornale ultraserio con caricature. Il fondatore era stato ispirato dall’articolo della testata fiorentina? 

Questo giornale, mettendo in berlina pagnottisti e “fornai” non poteva avere vita facile e vari numeri furono sequestrati, ma abbiamo preso troppo spazio, perciò vi daremo qualche notizia in merito in un prossimo numero. 

‘U CUCUMILU, PIANTA MEDICAMENTOSA DI CALABRIA, IN UNA MEMORIA DI MICHELE TENORE

di Giuseppe Abbruzzo

 

Agli inizi del sec. XIX, per l’embargo imposto dall’Inghilterra ai domini dei napoleonici, vennero a mancare le piante medicinali esotiche. I naturalisti del Regno di Napoli furono invitati a ricercare e segnalare i sostituti reperibili. La mancanza si avvertì particolarmente negli ospedali militari, aperti, in seguito all’occupazione del Regno dai napoleonidi. Il celebre naturalista Michele Tenore, nel 1808, scrisse, perciò il Saggio sulle piante medicinali della Flora Napoletana e sul modo di surrogarle alle droghe esotiche.

L’invasione delle Calabrie (1806), dove la malaria mieteva vittime nell’armata francese, pose in primo piano il preoccupante problema. I medici si trovavano in enormi difficoltà.

Tenore, nell’adunanza (15 dicembre 1827) del Regio Istituto d’Incoraggiamento alle scienze naturali di Napoli, lesse la Memoria sul pruno cucumiglia di Calabria, dicendo, fra l’altro: “fu scoperto che i calabresi si guarivano dalle febbri intermittenti, facendo uso della scorza di un albero chiamato Cucumiglia”. L’albero altro non è se non quello detto, nel nostro dialetto: cucumìlu, pianta selvatica, che vegeta in Sila e fruttifica come i meli.

Se ne sperimentò l’uso negli ospedali e il “primo medico dell’esercito”, cav. Savarese, lo segnalò al Tenore. Questi volle subito conoscere la pianta dai poteri medicinali e, con altri, fu coadiuvato nella ricerca dal sig. Thomas, ispettore delle foreste e “corrispondente pensionato” del Reale Orto Botanico delle Calabrie. Fu possibile procurarsi frutta e corteccia dell’albero da studiare.

“Non fu difficile allora - scrive Tenore - riportarlo al suo vero genere, che trovai essere il Prunus, ma in quanto alla specie, dopo averla inutilmente ricercata tra gli autori che potei consultare, concepii il sospetto che potesse non essere ancora definita”. Segnala il ritrovamento nel 2° supplemento al Prodromo della Flora Napolitana.

Riproduce varie piantine nell’Orto Botanico, seminando i noccioli. Battezza la specie Prunus Cucumilia. Ne fa la descrizione e fa eseguirne i disegni relativi. Ha la soddisfazione di vedere l’interesse dei naturalisti Sprengel e de Condolle, che segnalano la pianta fino ad allora ignorata.

Ma, quali erano le componenti chimiche, che ne facevano una pianta medicinale? Tenore ci fa sapere che non se la sentiva di sacrificare qualche piantina. Nel frattempo, però, un suo allievo, Domenico Polizzi gli inviò, nel marzo del 1826, “da Mesoraca nella Calabria Ulteriore” un pacchetto di scorze, radici e rami del cocumìglia. Gli comunicava, inoltre, d’averne sperimentata l’efficacia curativa in detta provincia per otto anni.

Tenore, a questo punto, si rivolge al chimico Giovanni Semmola, per l’analisi delle cortecce. Questo è il risultato:

Concino alcoolico . . . . . . . . . . . . . . . . . .             0,16

 …………acquoso   . . . . . . . . . . . . . . . . . .             0,08

Materia colorante rosso-gialliccia in quantità indeterminata.

Principio legnoso . . . . . . . . . . . . . . . . . . .             0,70”1.

Tenore presenta la pianta al Consesso suddetto, sottolineando che è bene introdurla nella farmacopea: “Trattandosi di un rimedio sperimentato efficacissimo nelle intermittenti esquisite, che sogliono specialmente attaccare le persone, che trovansi sotto l’influenza dell’aria malsana, di cui disgraziatamente abbondano le spiagge del nostro Regno; e siccome la più numerosa classe da queste malattie bersagliata si compone di poveri contadini, cui mancano i mezzi da comprare droghe dispendiose”. E perché, continua, il consesso: “potrà giudicare se per bene dell’umanità, e per corrispondere eziandio alle brame de’ dotti medici oltremontani, convenga divolgarne ed estenderne l’uso per mezzo della pubblicazione de’ suoi lavori accademici”.

La relazione fu pubblicata2.

Gli interessati possono leggere la descrizione della pianta, fatta da Tenore, nel volume degli Atti. Riportiamo, però, quanto si riferisce sul “luogo natale, epoche della vegetazione” e altre notizie, capaci di appagare la curiosità.

“Quest’albero nasce sui monti della Calabria in tutta l’estensione di quella penisola, a vista del mare nell’esposizioni meridionali, occidentali ed orientale, all’altezza di circa 3000 piedi”. Precisa che abbonda “principalmente nelle Sile, ne’ monti che coronano Monteleone, Staiti, Cotrone, Mesoraca ec. (…) Apre le sue gemme de’ fiori in Aprile, e matura i frutti in Settembre”.

La corteccia era usata, come già detto, in sostituzione di quella di china, scarseggiante, per i motivi accennati in apertura. Riguardo al nome, precisa che “nelle Calabrie quest’albero porta il nome Cocumiglia o Cucumile3” e in alcuni luoghi del Cosentino, ma non dice quali, è indicato “anche col nome di Agromo o Gromo”.

Polizzi gli assicurava che la scoperta dei poteri antifebbrili della corteccia erano dovuti “ad un nobile cittadino di Monteleone4, che 50 anni fa5 vestì l’abito religioso in uno de’ conventi di Mesoraca, e che a proprie spese ne faceva ogni anno raccogliere sui monti una gran copia, e ne preparava l’estratto che distribuiva ai poveri, tormentati dalle febbri intermittenti”.

Va detto che Mèrat, nel Dictionner des sciences médique, tom. XLVI, dopo aver riportato le qualità febbrifughe della pianta scrive: “Il y a en Calabre une espèce qu’on appelle P. cucumilia Tenore, qu’on regarde comme un puissanta fèbrifuge” (Vi è in Calabria una specie che si chiama Prunus cucumilia Tenore che si ritiene potente febbrifugo).

Tenore fa rilevare, riguardo al nome, che è d’origine greca: “Troviamo - scrive - infatti in Teofrasto al libro I. cap. 18 della storia delle piante descritto il pruno comune sotto il nome di kokumilon, identico affatto a quello di Cocumiglia che i calabresi adoperano per designare questa specie di pruno, che col comune ha molta somiglianza”.

Le dette varietà sono state introdotte in Acri da botanici, appassionati, corrispondenti dell’Orto botanico napoletano.

 

1 - L’analisi fu pubblicata nel II vol. dell’Esculapio, p. 11

2 - Atti accademici, vol. IV, 1828.

3 - Così è detto nel dialetto acritano, ma con l’uscita in u.

4 - Attuale Vibo Valentia.

5 - Dato che la relazione fu tenuta nel 1827, il citato signore si monacò nel 1777.

 

 

 

 




                                                   IL "CAPOBIANCO"

 

"Capobianco", al secolo Vincenzo Federici, salì il patibolo a Cosenza il 26 settembre del 813 e morì con grande dignità, proponendosi come un esempio di coerenza e di coraggio anche nel momento estremo della propria vita. Aveva solo 41 anni e lasciava la vita sul patibolo per un'idea che già infiammava tanti. Nativo di Altilia (Cs), Vincenzo Federici era stato il fondatore della Carboneria cosentina, proprio ad Altilia, insieme con De Gotti, Marsico e Caruso. Aveva manifestato, al tempo della Repubblica napoletana, ideali repubblicani moderati. Nel periodo dell'occupazione francese, al tempo di Gioacchino Murat re di Napoli, aveva avuto l'incarico di Capitano della Legione del Circondario, cui apparteneva. Benché il Murat, ritenendola utile alla propria politica e a sostenere il proprio Regno, fosse vicino alla Carboneria, Vincenzo Federici, uomo libero e amico della Costituzione, ad un certo punto si schierò contro di lui e cominciò a sognare la rivoluzione e la lotta contro il francese, ma tenendosi lontano dal Borbone. Nei giorni del 14 e 15 agosto del 1813, in occasione della fiera del Savuto, ci furono dei disordini che portarono ad una rivolta che interessò Scigliano ed anche Aprigliano. Il Capo Carbonaro Vincenzo Federici fu fra i protagonisti di quegli eventi e, quando il Comandante della Provincia cosentina, Iannelli, con la promessa del perdono, convinse i ribelli ad abbandonare la lotta, egli restò in armi da solo e non mollò. Fatto prigioniero e rilasciato, il "Capobianco" era comunque attenzionato dal Manhès, che gli fece pervenire una lettera per un incontro a Cosenza. Vincenzo Federici si recò all'appuntamento ma, insospettito, si allontanò con un pretesto e corse verso il paese natale, per rifugiarvisi. E lì, braccato dai militari francesi, per non arrecare danno ai propri concittadini, decise di cedere ai nemici, cui chiese il permesso di passare, prima di consegnarsi, a salutare i propri famigliari. Lo ottenne e si recò alla propria casa, donde si diede alla fuga. Meditava una nuova rivolta. Venne, però, fatto prigioniero a Grimaldi il 25 settembre ed il giorno dopo fu processato e, condannato a morte per impiccagione. Nella stessa giornata del 26 settembre salì il patibolo sulla collina di Torre Vetere, a Cosenza. Così chiudeva la propria breve vita il Capo Carbonaro Vincenzo Federici. La sua vicenda umana di patriota, ancora oggi, invita noi tutti ad una riflessione storico- filosofica: "Una riflessione storica perché sollecita qualche considerazione e qualche osservazione sull'inizio del Risorgimento; una riflessione filosofica perché suggerisce, altresì, uno sguardo alle idee e agli ideali che animarono i nostri patrioti in quegli anni" (1).

EUGENIO MARIA GALLO

Note

  1. Cfr. E.M. Gallo, Altilia - Vincenzo Federici, illustre carbonaro della nostra terra in Tracce di un tempo, Rivista di storia, folklore e tradizioni popolari. Marzo- Giugno 2014, Numero 2 in attesa di registrazione, Atlantide Edizioni di Fiore Sansalone, Rogliano (Cs) giugno 2014, p. 14.

 

Bibliografia

  1. Vincenzo Federici "Capobianco" – Carbonaro in Comune di Altilia 200 Anni di Storia Italiana 1811 – 2011, a cura di Elio Valentino, in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia ASEmit aprile 2011.
  2.  Tracce di un tempo, Rivista di storia, folklore e tradizioni popolari. Marzo- Giugno 2014, Numero 2 in attesa di registrazione, Atlantide Edizioni di Fiore Sansalone Rogliano (Cs) giugno 2014, Cfr. E.M. Gallo, Altilia - Vincenzo Federici, illustre carbonaro della nostra terra, pp. 13- 15.

 





BISIGNANO CONCEDE LA CITTADINANZA ONORARIA A FUMEL

                                         

Pietro Fumel, del quale, ora solo gli studiosi si ricordano, fu tenente di artiglieria delle truppe dei Savoia.

Quando José Borjes - generale spagnolo – fu inviato da Francesco II di Borbone in Calabria, per riconquistare il perduto regno, gli fu contrapposto Fumel, inviato nel cosentino per reprimere il cosiddetto “brigantaggio”.

Gli storici sono tutti, o quasi, concordi nel dire che la sua repressione fu spietata; che i metodi messi in atto furono deplorevoli. Le esecuzioni furono moltissime senza che, spesso, si accertasse la colpevolezza degli accusati. Nel proclama indirizzato, il 12 febbraio 1862, ai calabresi si legge: “prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante vivo o morto”. Non pochi uccisero, impunemente, non il “brigante”, ma il loro nemico. E su questo si potrebbe continuare, riportando e analizzando la condannabile repressione di questo autore di un vero genocidio di massa.

La storia, però, la fanno i vincitori e dissero e decretarono diversamente. Noi per far rilevare come spesso si siano premiati e onorati persone di questa risma. Segnaliamo alcuni Comuni che, per evidente piaggeria, onorarono della cittadinanza Fumel.

Cosenza, Amendolara, Roseto Capo Spulico, S. Marco Argentano, ecc.

Pubblichiamo, a riguardo, la deliberazione del Comune di Bisignano

“L’anno 1862, il giorno 26 Maggio nella Segreteria Comunale di Bisignano.

Riunito il Consiglio Municipale:

Il Sindaco sig. Nicola Boscarelli qual Presidente del medesimo Collegio seguendo la voce pubblica e considerando.

Che l’Egregio sig. Maggiore Cavaliere Fumel colla dispersione del Brigantaggio in questa Provincia, e con ispecialità per il distruggimento della Comitiva del famigerato Vincenzo Russo Ferrigno, il quale alla testa della medesima con le sue Vandaliche Gesta contro ogni ceto di persona, industrie, e commercio avea manomessa la sicurezza pubblica, ed il Servizio delle Poste del Real Governo; si è reso un uomo benemerito alla patria.

Il Consiglio medesimo in attestato d’imperitura stima, e di eterna gratitudine a voti unanimi offre all’Italianissimo sig. Maggiore Fumel la Cittadinanza di questo Comune, il quale ricorderà sempre con costante affetto le sue stentate spedizioni, di giorno e di notte, e specialmente quelle del 22 e 28 Dicembre, giorni memorabili del passato anno ne’ quali si restituì, dopo molti mesi, a questa Patria la tranquillità perduta, con ricompensa a’ tanti oltraggi sofferti

A perenne ricordo di gratitudine, da proposta del medesimo Sindaco il Municipio ha deliberato. Che questo verbale sia trascritto nel libro delle deliberazioni sia pubblicato nel Calabrese, e nel Giornale ufficiale del Regno a cura del Sindaco medesimo.

Fatto, letto, e sottoscritto il giorno, mese, ed anno come dietro.

Il Consiglio Comunale.

(Seguono le firme).

La deliberazione surriportata apparve su Il Calabrese, un periodico che si pubblicava in Cosenza. Il numero è datato: 31 luglio 1862.

Giuseppe Abbruzzo

 






LA DONNA IN CALABRIA

La cronaca dei giorni nostri è stracolma di fatti di sangue, dei quali sono vittime le donne. Nella Calabria d’un tempo si riteneva la donna un essere particolare. Se l’uomo diceva di lei, che portava i capelli lunghi, variamente aggiustati, ma aveva, per contro, la mente corta: era poco intelligente. Questo, però, era contraddetto dal matriarcato, non riconosciuto dall’uomo, ma che, di fatto, imperava. Si considerava, infatti: L’òmu ccu’ lu carru / e la fìmmina ccu’ lu sinu, cioè è inutile che l’uomo porti il ben di Dio, caricandone un carro, se la donna sperpera, cacciando fuori di casa il tutto a grembiulate. Si evidenziava così che la donna doveva essere economa, perché la famiglia progredisse. Come si diceva: il maneggio di casa era della donna e non dell’uomo. Nei momenti in cui si doveva sbrogliare una matassa era la donna a trovare la soluzione: ‘A donna, quannu vo’ trova la scusa: / minti la pezza alla rrobba bucàta! (La donna, quando vuole trova la scusa: / mette la toppa alla roba bucata! - Ossia sa trovare, per la sua mente acuta, il rimedio, la scusa opportuna).  Potremmo continuare, ma cediamo al sommo Vincenzo Padula, che così la presenta, relativamente ai suoi tempi: “Una donna di Calabria vale quanto l'uomo d'ogni altro paese: i fianchi vigorosi, gli occhi arditi, i polsi robusti, le gote floride, la ricca capigliatura, e l'accento minaccioso la dicono nata nel paese dei terremoti e dei vini forti. Vive sulle montagne? gonna di colore vermiglio, come i gruppi dei lampi che saltellano per le montagne. Vive presso il mare? gonna azzurra come gli olivi, sotto cui mena la vita. Maneggia la conocchia ed il fucile, la spola e la scure, ed il suo sguardo è infallibile come il suo fucile. Ti fissa sopra lo sguardo? Ti raddoppia la vita. Ti fissa sopra il fucile? Te la toglie”. Il giovane s’innamorava d’una ragazza, ma guai ad avvicinarla, a rivolgerle la parola, perché avrebbe dovuto affrontare i fratelli che, per vendicare l’onore offeso, menavano le mani, nella migliore delle ipotesi, o tiravano fuori i coltelli o gli schioppi e quel che poteva succedere è immaginabile. Lui, l’innamorato, fingendo di passare, per caso, nei pressi della casa della ragazza, sulla quale aveva messo gli occhi, ne cantava le lodi:

La lun’è janca e vua brunetta siti,

illa l’argìentu e vua l’oru portati;

la lun’ammanca e vua sempri crisciti,

la luna accrìssa e vua nun accrissàti;

la luna nun ha vampi e vua l’aviti,

illa perdi la luci e vua la dati

e si, bella, la luna la vinciti,

cchiù bella de la luna vua simbrati!

Diamo la traduzione, per quelli che non conoscono il dialetto o hanno difficoltà nel tradurlo: La luna è bianca e voi brunetta siete, / lei l’argento e voi l’oro portate: / la luna decresce e voi sempre crescete, / la luna s’ecclissa e voi non v’ecclissate; / la luna non ha calore e voi l’avete, / lei perde la luce e voi la date / e se, bella, la luna la vincete, / più bella della luna voi sembrate.

Questa e mille altre canzoni cantava, composte col cuore, dal quale sgorgava vera poesia. La luna fida amica degli amanti è presente in molti canti e uno apre con un verso del noto poema siciliano: La baronessa di Carini: “Vaju de notti, cumu va la luna, / sempri circànn’ a tia miu caru beni…” (Vado di notte, come va la luna, / sempre in cerca di te, caro mio bene…).

Pure qualcosa non quadrava. La donna era un “essere decaduto”, tanto che tramanda il citato Padula: “Il pastore che caglia il latte, deve avvolgere il presame in un pezzo di tela appartenente ad uomo e non a donna; altrimenti è sicuro che il latte non cagli. La parte inferiore della camicia della donna si dice musto: coi fili di questo musto se si fa un lucignolo per la lucerna, il lucignolo non arderà”. Come si vede c’è della contraddizione, anche perché se si trattava d’una zitella le cose cambiavano: “se la donna è zitella, l'opinione sul conto suo è tutt'altra. Il tocco delle dita di lei si crede portentoso, profetica la parola, ispirato lo sguardo. La zitella fabbrica il pane? Esso le cresce nelle mani, ed anche senza lievito riuscirà gonfio, alluminato e spugnoso più del pane fermentato. La famiglia compra un bicchiere, una bottiglia, un orciuolo? Perché acquistino buono odore, la prima a porvi su le labbra deve essere la zitella. Vanno le donne a raccorre i covoni e spigolare? Se nel campo vi è uno stelo a doppia spiga, colei che lo trova è certamente zitella. Avete un'infiammazione negli occhi? L'unico farmaco che può guarirvi è la saliva della zitella. Ella riceve il più delicato rispetto nella famiglia, e la donna più corrotta e l'uomo più dissoluto non osano in Calabria profferire una parola meno che onesta innanzi a lei. Quanto son belli e poetici i seguenti proverbii, e quant'altezza di sentire manifestano in Calabria! La zitella è santa come un altare. L'uomo che gitta un cattivo pensiero nell'anima di una zitella è simile al Demonio che versò il male nel paradiso terrestre. Tre sole cose hanno fragranza in questo mondo, il fiato del fanciullo, della zitella e del vitellino lattante”. Forse ritorneremo sull’argomento, per dire dell’altro e far capire a chi non volesse o non potesse che la donna è quanto di più bello si sia potuto creare!

Ma… è tempo di lasciare la penna.

                                            Giuseppe Abruzzo





DANTE ALIGHIERI “LA DIVINA COMMEDIA

INFERNO, CANTO PRIMO

Libera traduzione in dialetto a cura di Eugenio Maria Gallo

 

 Alla scansata de ssa vita mia

 signu frunutu 'ntra 'nu voshcu scuru

ca gira gira avìa perdutu 'a via.

 

                                                           Un sacciu potì dì cum'era duru

                                                            ssu voshcu sarbaggiu e straviatu

                                                          chi si cce pensu tegnu ancò paura!

 

Tant'è bruttu ch'a morte è bbonu statu;

ma ppe ve dì d'u bbene canusciutu,

v'haiu 'e parrà de chillu ch'è 'ncuntratu.

 

                                                           Un sacciu cumu llà signu frunutu,

                                                           ch'era mortu de sonnu 'e tuttu puntu

                                                           quann'u caminu ggiustu haiu perdutu.

 

E arrivatu alli pedi de 'nu munte,

duve frunìa chillu pezzu de vallune

chi paura m'avìa misu 'ncore e 'nfrunte,

 

                                                           azannu l'occhji, è vistu ch'i spalluni

                                                           d'u munte 'u sue cadiàva ccu amure

                                                           'u sue chi guida l'omu alli giruni.

 

Tannu frunìu 'nu pocu 'u terrure

ch'u funnu de lu core avìa traviatu

ppe chilla notte chjina de dulure.

 

                                                           E cu' fa chin'ormai è senza jatu

                                                           ca d'u mare sup'a praja va sagliennu

                                                          vutannuse allu pericuu scampatu,

 

ccussì 'u core miu, chi jìa fujennu

arreti se vutau alla scansata

chi mai lassàu passà omu ccu ssennu.

 

                                                           Pue doppu avìre fattu 'na jatata,

                                                           signu avviatu ppe lla praja suarina,

                                                           sempe vasciu ccu lu pede de puggiata.

 

Allura alla nchjanata d'a cullina,

'na lunza leggia leggia m'apparìu,

de piu macchjatizzu tutta chjina;

 

                                                          propriu davanti a mie se spunìu,

                                                          e me currettiava tuttu 'ntornu,

                                                           fozi ppe me vutà, puarellu iu.                  

                                                                                                                                  Fine Parte Parte




SENZA I PROPRI DEI, UN POPOLO NON E' PIU' SE STESSO!

 

Quando l'antico Impero degli Incas venne distrutto dagli Spagnoli, si chiuse per sempre un'era. Eppure gli imperi del Continente Americano, gli imperi dei Maya, degli Aztechi e degli Incas, al tempo della conquista degli Spagnoli, erano ben strutturati e bene organizzati. Allora, cosa successe? Come potè accadere che quegli imperi crollassero come un castello di carta, davanti alla nuova realtà umana che giungeva dal Vecchio Continente europeo? Certo le motivazioni furono tante, dalle armi da fuoco alle malattie introdotte dagli europei, dai mezzi di cui erano in possesso gli spagnoli ad altre cose che, insieme, li fecero apparire come degli esseri superiori, come delle vere e proprie divinità. Sì, l'uomo bianco finì con l'apparire, agli occhi degli indigeni, come un dio. E ciò, a giusta ragione, ci consente di dire che, nella fine di quegli imperi, un ruolo se non decisivo di certo molto importante lo ebbe anche la religione. In fondo Pizzarro si diresse verso Cuzco e la conquistò con appena pochissime decine di uomini (circa duecento). Ma ciò non bastava e non poteva bastare a far crollare un popolo e la sua civiltà. A distruggere le radici e le tradizioni d'una grande comunità, quale quella degli Incas, furono la religione e la sua penetrazione ed affermazione fra i nativi. E ce lo raccontava, nei propri Commentari reali degli Incas (1590), Garcilaso de la Vega. Garcilaso era figlio di un conquistador spagnolo e di una indigena peruviana, che discendeva da un sovrano Incas (Tupac Yupanqui), il cui regno nel Perù risaliva all'ultimo periodo del XV secolo. Garcilaso si era trasferito in Europa (Spagna) ma, lontano dalla propria terra, spesso si sentiva frustrato e in crisi di identità. Coi propri commentari, egli pertanto ritornava alla propria terra. In essi, dopo aver descritto la conquista di Cuzco da parte degli Spagnoli, che avanzavano quasi avvolti da un'ombra sacra, passava alle conclusioni, vergando parole di grande tristezza e di grande verità. "Uccidendo l'Inca Atahualpa, gli Spagnoli – si legge in Pietro Citati, La Luce della Notte, I Grandi Miti nella Storia del Mondo, La Morte degli Dèi – suscitarono negli Incas il terrore che i loro dèi fossero morti: il cielo era vuoto, la terra era vuota; e da quel momento l'esile edificio costruito attorno a un punto invisibile cominciò a lacerarsi, a dissolversi, a precipitare nell'abisso" (1). Senza più i propri dèi venivano meno le proprie origini e le proprie radici; per gli Incas finivano una storia ed una civiltà, la propria storia e la propria civiltà. "Se gli dèi erano morti, - si legge in P. Citati – anche essi potevano morire" (2). Sì, è proprio così, gli uomini ed i popoli, se perdono la propria identità, non sono più gli stessi e non hanno più ragioni e condizioni per poter essere quegli uomini e quei popoli di prima.

EUGENIO MARIA GALLO

Note

  1. Cfr. Pietro Citati, La Luce della Notte, I Grandi Miti nella Storia del Mondo, La Morte degli Dèi, Arnoldo Mondadori editore S.p.A., Milano dicembre 1996, p. 299.
  2. Ibidem, p. 301.

 

Bibliografia

  1. Pietro Citati, La Luce della Notte, I Grandi Miti nella Storia del Mondo, Arnoldo Mondadori editore S.p.A., Milano dicembre 1996.
  2. Salvadori, Comba, Ricuperati, Storia 1, Rinaldo Comba Giuseppe Ricuperati Dal XIII al XVII secolo, Loescher editore Torino (Ristampa) 1986.

 




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