UN ARBËRESHË

Un arbëreshë non ha bisogno di atti archivistici per sapere di esserlo, perché lui già conosce quanti e quali valori lo identificano culturalmente. Un arbëreshë è stato tale prima, durante e dopo le vicende che hanno visto protagonista Giorgio Castriota e tutta la regione storica rispetta perché “gjitonë ideale”. Un arbëreshë è venuto nel meridione da persona desiderata ad assolvere almeno a tre compiti, se molti non lo sanno è il tempo che leggano, non in forma scritta del loro idioma, che non serve a nulla, ma in italiano latino e greco, così sapranno come sono collocati nella storia e che strada hanno fatto. Un arbëreshë cresce aggrappato al merletto, candido, della madre, fa i primo passi sostenendosi nelle pieghe delle zoga; inizia a camminare e quando sicuro di farcela, si libera perché conosce bene la solidità di quelle pieghe. Un arbëreshë, conosce la storia che gli appartiene, non ha bisogno di conferme di stravaganti registi, distratti alchimisti o ironici giullari. Un arbëreshë non è un esperimento linguistico, perché è un modello completo e trova la sua linfa nei comportamenti di libertà impressi nella sua natura di essere umano.

Se un arbëreshë nasce nel paese capitale della cultura, si forma sotto il sole e l’aria della capitale NÀrbëreshë, non ha bisogno della crusca del mugnaio o alchimie senza orientamento. Un arbëreshë non è l’uomo che dopo aver pulito una casa abbandonata, si siede davanti all’uscio e parlare una lingua altra, sperando che tutto gli sia offerto dal cielo e la casa cresca per opera di altrui genti. Un arbëreshë, per quanti non hanno consapevolezza, è un componimento mediterraneo di alto valore sociale e culturale, solo lui può dire chi è, cosa vale, e quante missioni è in grado di onorare, perché vive di codici che gli altri non sanno e ne possono comprendere. Un arbëreshë è la radice solida dei labili e discreti albanesi, questi ultimi in specie, si devono astenere, dal riferire argomenti e principi di radice culturale, perché non concepiscono come portare sulle spalle e idealmente nel cuore e nella mente la radice dell’antico ceppo. Un Arbëreshë può essere di esempio e guida agli albanesi, il contrario è impresa ardua, anzi impossibile; tutte le volte che nella storia hanno provato l’esperimento, dai Balcani sono emersi scuotimenti, guai e vicende paradossali, che certamente non sono annotati per la gretta linearità di atteggiamenti.

Un arbëreshë è fiore; sboccia si moltiplica e consolida la sua raffinatezza, ogni volta che il sole appare e accarezza le colline a ridosso del “fiume Adriatico”, affluente preferito del mare Jonio; il processo naturale, ripete senza mutazioni di genere, il singolare avvenimento dalla prima luce dei tempi . Un arbëreshë non balla, canta solamente, lo fa per lavorare meglio e con profitto, si lega ai suoi simili dandosi la mano; il segno di leale operosità e se per dovere lavorativo deve distaccare, avvicinano i cuori in un ideale battito di fratellanza circolare. Un arbëreshë danza è balla, per vallje, tutto nasce dall’imposizione di cambiare religione e lui onesto per non ferire, distrae così quanti credono di esser riusciti nell’impresa, e il giorno dopo si rendono conto che nulla e cambiato perché bizantina rimane ogni cosa.

Arch. Atanasio Pizzi