Raggi, 9. Un campione incapace di errore

di Ettore Marino

 Fin da quando esordì, Bernard Hinault sapeva, e lo disse più volte, che avrebbe smesso di correre il 14 Novembre del 1986, giorno del suo trentaduesimo compleanno. Fece quanto promesso, e fin qui nulla. Da rilevare è invece che Bernard diede costantemente l’impressione di vincere non una corsa in meno e neanche una in più di quelle che già aveva deciso di far sue. Qui, qui è la sua perfezione.

Ricorderemo di straforo che collezionò due Vueltas, tre Giri, cinque Tours, due Liegi e due Lombardia. Accenneremo brevemente che i Giri (e le Vueltas) che vinse furono i soli che disputò. Se in quello dell’85 un rinato Moser lo tenne in dubbio fino all’ultima crono, sia in quello dell’80 che in quello dell’82 si mosse con la certezza del sonnambulo cui il più alto e angusto cornicione non dà paura, e con l’avvedutezza di un contadino mago che sa persino l’ora in cui occorre seminare poiché il cielo e i bizzarri suoi moti per lui non hanno arcani.

Diremo un poco più distesamente di come vinse una corsa non certo grata al suo cuore e ai suoi tendini, e di come trionfò in un Mondiale che fece fremere di gioiosa invidia Eddy Merckx che lo seguiva per TV.

Parigi-Roubaix del 1981. Hinault non ha ancora ventisett’anni, la Roubaix ha corso poche volte ma sembra averla corsa da sempre e sempre invano. Però quel giorno sa che i cieli gli daranno vittoria. Nessun Moser in fuga, che nei tre anni precedenti si era lasciato alle spalle il Demonio e la Morte; in fuga nemmeno alcun De Vlaeminck che, Morte e Demonio insieme, era volato sulle pietre a far sua la più leggiadra fra tutte le classiche per quattro volte addirittura. In testa, oggi, un drappello di sei cavalieri, e Bernard e Francesco e Roger ne fanno parte. Al velodromo giungono tutti e sei, e chi scrive, tifoso senza pace di Francesco Moser, spera che questi vinca, teme e crede che a vincere sarà Roger De Vlaeminck, ed è più che sicuro che Hinault sarà al massimo terzo. Bernard imposta quella che parve una volata assurda: dura, di ostinatezza, col più feroce dei rapporti sin dalla prima pedalata. Moser e De Vlaeminck danno l’idea d’essere vittime di uno strano incantesimo; Demeyer guizza, è riassorbito, mentre Roger e Francesco si riscuotono, ma ogni loro colpo di pedale, pur se pieno e gagliardo, è solo un fuoco di miseri sterpi sul corpo di una roccia, e la roccia è Bernard, che trionfa.

L’anno prima, a Sallanches, Hinault aveva fatto suo il Mondiale. Percorso irto di salite; anello breve, poco adatto ai giochi di squadra. Ma quale squadra avrebbe mai potuto nulla? Moser, la sera precedente la corsa, era stato profeta ispiratissimo nel dire che solo in quindici la avrebbero conclusa. Hinault, senza voltarsi mai, senza cercare occhi a indagare stanchezze o a ricercare aiuti, va, va col suo passo, passo di terra eterna, che ignora dubbio e timore e speranza, e giunge solo a un traguardo che soltanto altri quattordici naufraghi riusciranno a varcare, e solo molto, molto tempo dopo.