Charles Didier in tour nei primi anni dell’ottocento a San Demetrio e in altri paesi

 

“Io partii da Corigliano un bel mattino d’autunno; lasciando a malincuore le sue torri feudali, il suo triplice acquedotto, le sue boscaglie d’arancio, m’avviai verso le colonie albanesi di San Demetrio, poste all’occidente di quella città. Agli aranci succedettero tosto gli ulivi, ed agli ulivi le querce. Scorsi indi in alto torreggiare, come dicono gli italiani, il vasto casino detto di San Mauro …” (Indicatore, raccolta periodica di scelta di articoli Google …)

Inizia così l’articolo dal titolo “Gli albanesi di Calabria”, estratto dalla Revue des deux mondes, relativo al viaggio in Calabria eseguito nel 1830 da Charles Didier, scrittore, poeta e viaggiatore francese di origini svizzere, che nel 1827, attratto dal mito dell'Italia, decide di intraprendere un Grand Tour attraverso la penisola.

In primavera, arriva a Napoli, per poi dirigersi ancora più a Sud, in un itinerario insolito per i viaggiatori stranieri di quell'epoca, solitamente poco inclini ad andar oltre la capitale del Regno. Inizia così un anno di intenso peregrinare, lungo itinerario che lo porta attraverso le contrade di Campania, Abruzzo, Puglie, Lucania, Calabria e Sicilia.

A San Mauro, “in un luogo in cui la campagna s’appiana, le piante scompaiono e la vegetazione si spegne a piè di un colle arido e nudo”, scorge un contadino seduto sulla groppa di un asinello, che appena lo vede l’ aspetta e lo invita a salire, dicendogli, con tono deciso, che considera il rifiuto, un atto di offesa.

È questa la prima creatura umana che incontra, dopo Corigliano: è un giorno di Domenica e la campagna sembra deserta.

È costui – scrive lo scrittore francese - un albanese di San Demetrio, che comincia a raccontare di Skanderbeg…”.

Fra una conversazione e un’altra, arrivano a San Demetrio, “villaggio in mal sesto – scrive - posto però, in una ridentissima situazione".

Ed aggiunge come se “la natura dopo esser sembrata quasi morta per un bel tratto di paese si rianima di nuovo e par’ che voglia coprire la miseria degli abitanti col lusso della verzura e della vegetazione”.

Accolto in paese da un uomo di Lettere “che ha sostenuto le prime cariche dello stato”, viene ricevuto e festeggiato come il benvenuto, anche perché non arriva in paese un viaggiatore forestiero da quindici anni. La sua venuta è quindi un tripudio di popolo e tutti si mostrano pronti a servirlo con cordialità, citando come esempio un “maestro scarparo” che gli sistema le scarpe.

Nel suo racconto, lo scrittore afferma subito che “San Demetrio è il capo-luogo di un distretto abitato tutto quanto da Albanesi” e che gli altri paesi che lo compongono sono raggruppati quasi in giro. E cita San Giorgio

(paese più grosso) e Vaccarizzo (quello ove le donne sfoggiano maggior eleganza d’abiti). E poi si sofferma sulla esistenza di queste colonie albanesi nel regno di Napoli, su Giorgio Castriota, su suo figlio Giovanni “che si rifugia anch’esso a Napoli, e il re assoda al suo servizio un gran numero di Albanesi. Egli ne istituisce un corpo scelto a cui dà il nome di reggimento reale macedone, che dura fino alla fine del secolo scorso” .

Aggiunge che “I Greci di Calabria (sono nominati gli Albanesi) godono di una riputaziona abbominosa, ma non la meritano, perché hanno avuto nei confronti degli Italiani un’esistenza sempre distinta, anzi “isolati su aspre montagne coltivarono vaste distese aride, e recarono la vita ov’ era la morte”.

Didier non tralascia di ricordare che questi fanno uso ancora della loro lingua nativa, anche se mista, naturalmente, con italianismi, cantano le vecchie canzoni e che in riferimento al culto – scrive – che seguono il rito greco, riconoscendo l’autorità del sommo Pontefice, anche se hanno il loro Vescovo, che abita nel collegio di Sant’Adriano. Precisa che si tratta di un rispettoso ecclesiastico colto e non fanatico che gli prestò “un inedito scritto di un letterato distinto … e che  egli prese fare dei ravvicinamenti ingegnosi fra i suoi connazionali ed i Germani antichi … che sotto parecchi aspetti gli Albanesi differiscono da loro”.

Lo stesso Vescovo con cui lo scrittore ha il colloquio gli comunica che sta raccogliendo intorno alla storia degli Albanesi molte notizie: Gli presta anche dei libri e lo informa sulle diverse usanze del paese (riti dei funerali, celebrazione del matrimonio …), molte volte vicine alle antiche tradizioni albanesi. Lui stesso ha l’opportunità di seguire un cerimoniale nuziale in tutte le sue fasi.

Subito dopo il congedo dal Vescovo, entra in chiesa, che gli appare “spoglia d’ogni ornamento e buja: essa è gremita di fedeli d’ambi i sessi, ed ha, però, campo di poter scorgere più da vicino il vestire delle donne …”.

Si accorge che “il costume spiccato e pittoresco delle donne contrasta coll’oscurità della Chiesa”.

Ritto in piedi accanto ad un pilastro assiste all’angusta cerimonia “che gli tocca il cuore”, mentre uomini e donne, in ginocchio e divisi in due gruppi cantano in greco.

Curioso, poi, di conoscere le canzoni albanesi, viene accompagnato a santa Sofia da un signore che le raccoglie. Accolto con gradita ospitalità, anche in questo paese, ha modo di ascoltare da una donna del luogo un canto che la sua antica memoria ha conservato, ovvero “alcuni squarci sparsi delle ballate ove si celebrano le gesta di Skanderbeg e che tutt’ora, al dire di Pouqueville – sono cantate dai pastori dell’Albania”.

Canti conservati, quindi, dalla memoria, perché la gente stessa ha difficoltà a scrivere la propria lingua. E narra che “la tradizione popolare conserva la memoria di un fratello di Skanderbeg, a cui viene dato il nome di Costantino il piccolo, e che forma il soggetto di parecchie ballate…”.

Dopo otto giorni arriva a San Costantino Albanese, primo paese della Basilicata, dove ha modo di accorgersi che l’acconciatura di quelle donne è bizzarra e il corpetto verde chiaro ha la stessa taglia che si usa a San Demetrio.

Alcuni mesi, dopo aver lasciato la Calabria, visita altre popolazioni di origini albanesi in Puglia, in Abruzzo, in Molise.

A proposito di questa regione scrive che gli abitanti “quantunque abbiano abbandonato il rito de’ loro padri, ne conservano però l’idioma e sopra tutto il carattere …” . E che trova a Portocanone la ballata di Costantino il piccolo, tale e quale l’ ha sentita a Santa Sofia.

 

Gennaro De Cicco