Raggi, 7. Note sul Mondiale

di Ettore Marino

 Chi poco sa di Ciclismo suppone che andar forte in discesa sia facile; chi poco sa di Ciclismo getta un’occhiata sulla gara, ti chiede: “Che fanno i nostri?”, e se ne va non vo’ sapere dove; chi poco sa di Ciclismo non sospetta nemmeno che chi fa l’andatura si sfianca tre volte più di chi sta a ruota, e per ciò, quando indugia a seguire una corsa, chi poco sa di Ciclismo s’aspetta che chi è andato in testa alla prima pedalata debba potervi restare fino al traguardo; quanto a far poi intendere a chi poco sa di Ciclismo che in seno ad ogni corsa c’è un delicato e intenso gioco di squadra, è come tentar di dissetare il deserto con un ditale d’acqua... Ecco, io ho sempre supposto che il Campionato del Mondo, che peraltro può essere una corsa magnifica, sia stato, come il Nobel per la Letteratura, un po’ inventato per chi di Ciclismo sappia poco. Perché? Perché il percorso dei Mondiali è a volte irto e severo e altre volte è un pantano per paperi; perché giganti quali Girardengo, Bartali, Anquetil, De Vlaeminck, Kelly, Fignon o Indurain mai l’hanno vinto, e vinto è stato invece o da altri campioni superbissimi o da pallidi brocchi che, sia detto con l’ironia la più affettuosa, non mette conto nemmen di nominare. E allora, perché è bello il Mondiale? Lo è perché l’iride è bella: bella per chi la indossa, certo, e bella pure per chi la guarda, se chi la guarda ama il Ciclismo nel solo modo che amare si debba ogni cosa, e cioè con umiltà. Ma chi crede di amarlo e di intenderlo e invece ama soltanto le sentenze che sputa, o sotto un’iride vinta riconosce un gigante che a volte, l’abbiam detto, è solo un nano o, se è un bastian contrario, scorgendo un iridato lo dirà perciò brocco e andrà, contento, a sputacchiare altrove. Il Mondiale, insomma, è una classica anomala, dal percorso che di anno in anno varia, e che riveste chi la vince di una maglia bianchissima cerchiata d’arcobaleno.

Ti ricordi, o lettore, di Sean Kelly? Ricordi la possanza della sua pedalata, e la sua discrezione, il timido sorriso, le sue volate auguste e quell’aura di altrove ch’è così propria dei figli d’Irlanda? Ti ricordi, lettore, di De Vlaeminck? Lo chiamavan “gitano”; lo chiamavano “Monsieur Paris-Roubaix”. Della vittoria nelle corse d’un giorno era insieme lo scienziato e il poeta, giacché, bizzarro di forza e di genio, t’aspettavi che stesse con gli altri per stroncarli in volata, ed egli se ne andava nel più inatteso dei momenti lasciando con un palmo di naso e gli avversari e te che il naso tenevi incollato alla TV; quando invece attendevi un suo scatto, mogio mogio arrivava col gruppo, Roger De Vlaeminck, e quasi sempre la vittoria era sua.

Cosa sapranno di Kelly o di De Vlaeminck quelli che di Ciclismo sanno poco? Nulla, non ne sapranno nulla. E noi al loro nulla li lasciamo, chiudendo questo scritto.