Note su un bel romanzo

di Ettore Marino

          Alla domanda senza sugo perseguitante gli scrittori in genere e i romanzieri soprattutto, occorrerebbe rispondere col dileggiare chi la pone. Nella prefazione al proprio romanzo, Francesca Librandi, giusta un diffuso malcostume, previene la domanda stessa fornendole una liceità che, appunto, essa non merita. La domanda è: “Quanto e che cosa c’è di autobiografico nel tuo romanzo?” Essendo un’astrazione, il lettor medio non esiste; non esistendo, ansima all’esistenza e la reclama chiedendo cose che, sapute, portano a verità vacue. Che la Beatrice di Dante fosse la figlia di Folco Portinari o fosse un’altra; che la leopardiana Aspasia fosse o non fosse Fanny Targioni Tozzetti, non può alterare l’alta verità di quel che Dante e Leopardi (ne) scrissero. Il lettor medio, grande chiacchierone (chi non esiste, chiacchiera!), ritrova pace momentanea in un nesso di causa del tipo: essendo innamorato di Beatrice Portinari, Dante scrisse la Vita Nova e, giacché c’era, ficcò Beatrice pure nella Commedia; essendo innamorato di Fanny, Leopardi ecc ecc ecc. Quando, in quinta elementare, la maestra ci parlò del poema dantesco, tutti fummo incantati e sentenziammo tutti che, se aveva scritto quella storia, Dante o l’aveva sognata pari pari o l’aveva compiuta realmente. Fresco in bocca ai bambini, quel realmente maleodora stantio sulle labbra di chi, adulto, nella creazione letteraria non cerca che i giorni e i dirimpettai dell’autore, ed è (malignamente) felice quando crede di averceli trovati.

        Oltre all’ansia di dare una risposta alla domandaccia, un’altra cosa sola m’è dispiaciuta nel libro di Francesca. È una cosa piccina, e ne dirò a suo luogo. M’affretto invece a ricordare che il romanzo s’intitola Attraverso i suoi occhi, e che è stato edito da Pellegrini nell’ottobre del 2020. Entriamo ora nel testo.

        Con sapienza mirabile, l’autrice ridona alla pagina il sacco placentare che forma informa e tiene unito il gruppo dei personaggi. Si tratta di studenti d’Università; medioborghese il milieu sociale; passione che predomina, l’amore per la musica heavy metal; l’epoca è il primo decennio del Duemila; il luogo, una mai nominata città universitaria di Calabria. Protagonista primo del romanzo è il sacco placentare stesso. Lo materiano necessità scolastiche, miti, ritmi, valori, rituali, luoghi di ritrovo. Lo materia il modo di parlare: quelle e non altre le figure retoriche, quello e non altro il lessico. Occorre essere arguti, esserlo in ogni istante. E l’arguzia si autorubrica come tale ogni qual volta si propone. Bravura dell’autrice è quella di essersi prodotta in 360 pagine di una solo apparente ridondanza che è invero e invece necessità scrittoria e compiuta mimèsi di un solo modo d’essere. Se lo zio Claudio parla in forme più elette e più sobrie, è solo per uno scarto generazionale, ché quanto al resto, arguzia perenne compresa, resta pur egli brano della medesima placenta.

        Rebecca, protagonista seconda del romanzo, nel sacco placentare è immersa appieno. Le sue letture (da Hemingway a García Márquez, dalla Deledda al Tao tê ching, da Pessoa a Jane Austen, né mancano I promessi sposi) sono sapientemente ricondotte all’aroma del gruppo, così come vi sono ricondotti i proverbi della nonna e quelli, in siciliano, del padre del suicida Marco. Il diritto di sciopero si sminuzzola in un accenno di alterco (ma è schermaglia amorosa più che alterco) tra Rebecca e Lorenzo, il sogno di un mondo nuovo è un assai solito poster del Che. Neanche il Vangelo di Giovanni, pur citato due volte, riesce a squarciare il velario. È nel sacco, Rebecca Ranieri; ma vi sta con dolore: un alto, intenso, mai meschino dolore. Odia, ad esempio, i viaggi. Parla, sì, come il gruppo, ma è però abitata da un’ansia di conoscenza e di purezza che trova sfogo e forma in somatizzazioni e in pagine di diario in cui vuota sé stessa in dense epitomi. È nata il 2 Novembre e, viva assai più di quanto il gruppo tolleri, trascina con sé il buffo stigma d’esser venuta al mondo nei giorno dei morti. Altro stigma che torna ossessivo è l’esagerata opulenza del suo seno. Ossessive e scientemente tali le formule fisse connotanti e talora denotanti gli altri personaggi: Lorenzo è sempre “il re dei fanatici”, Cristina è “la secca sorellona dagli occhi di smeraldo”, Ivan è “il riccioluto figlio di Kirk Hammet”, a ricordarne pochi. Non uno d’essi è mai pupazzo o proiezione di aspetti o di virtualità della protagonista; nessuno è messo lì per infondere moto a una macchina narrativa che, appunto, da sé e di sé si muove; e ognuno è uccellato con una puntuale icastica simpatica visività.

        Ma simpatica è, più di ogni altro, Rebecca. Vive la sua vicenda di iniziazioni (si è appena iscritta all’Università, visita Roma per la prima volta, conosce il sesso per la prima volta) aggredendo ogni snodo con domande leali e possenti su sé, la vita, il male, il mondo. Al diario confida d’aver vissuto seguendo i dettami “dell’onestà intellettuale, della rettitudine”. Chiede lealtà, agli uomini e alle cose. Brama l’amore. Lo vuole netto da ogni macchia. Non è pretesa vana: pura, cerca purezza. Incontra invece un ossuto terrore, e la Morte, ansia immediata e grande dio dell’anima, aleggia su lei e sul mondo.

Morte violenta e volontaria aveva ghermito Marco, amico d’infanzia di Rebecca e Cristina, “la secca sorellona dagli occhi di smeraldo”. La pagina che mostra le due sorelle in visita alla tomba del ragazzo ha un colore e un aroma differenti. Le squame usate cadono, il tono s’innalza. Ma non cadono tutte, le squame, né il tono s’alza quanto avrebbe potuto e dovuto. È questa la seconda e ultima cosa spiaciutami in un libro che molto mi piacque. S’intenda bene: non pretendevo un italiano d’altri secoli: il passato è sinonimo di beltà soltanto presso certi vecchi marciti in una provincia mentale assai più che logistica. Semplicemente, avrei voluto l’italiano di Francesca, di Francesca Librandi, non quello di Rebecca, sia pure se rasciutto e decantato: la pagina in questione avrebbe inferto alla placenta uno squarcio più intenso, e una luce più pura avrebbe avvolto l’atto di pietà per il suicida levandolo più schietta oltre l’affanno degli attimi e dei giorni cui si dà il nome solenne di tempo.

        E il tempo torna, e ghermisce Rebecca e i suoi amici in una marcia che, lenta e rapida insieme, li invortica in eventi che germinano eventi e che solcano in petto alla protagonista domande sempre più vibranti, più dolorose, più stupefatte d’una risposta che non c’è. Ma giovinezza è generosa, gli altri sono meno infernali di quanto appaiano, risposte grate asciugano ogni lacrima, e quando tutto pare essersi ricomposto in un sia pure se trotterellante lieto fine, la mezza pagina in cui si brucia l’ultimo capitolo fa irrompere, nel sacco placentare come in cuore a Rebecca, una sinistra algida ventata, foriera di ansie nuove, di nuove sfide.